L’ultima raffica di declassamenti da parte di Standard and Poor’s che ha colpito al cuore la Francia ed altri otto Paesi membri dell’Unione Europea fra cui l’Italia (bocciata con un doppio taglio che la porta nella zona "B" della valutazione di affidabilità) pone con drammatica evidenza il problema della credibilità delle società di rating, della correttezza delle loro valutazioni, dei criteri con cui emettono le loro pagelle e in definitiva di quella sorta di cartello monopolista che assegna fortune – e più più sovente sventure – ai debiti sovrani, agli istituti di credito, alle nazioni stesse.
Il downgrading inflitto a Parigi due giorni fa è a suo modo esemplare per il momento scelto e per le conseguenze che potrà avere sulle elezioni presidenziali. Con una furbizia assai poco dissimulata: intimoriti dalla prospettiva di declassare un Paese economicamente forte e geopoliticamente rilevante come la Francia, i Soloni di Standard and Poor’s (memori forse delle recenti dimissioni del loro presidente Deven Sharma, caduto dopo aver improvvidamente declassato gli Stati Uniti d’America) hanno preferito sparare nel mucchio, coinvolgendo nella strage dell’affidabilità finanziaria la "virtuosa" Austria, assieme alle negligenti Spagna, Portogallo, Slovacchia Cipro, Slovenia, fino all’Italia, reputata «provvista di adeguata capacità di rimborso, che però potrebbe peggiorare», giudizio quest’ultimo che ci apparenta – udite udite – al Perù, alla Colombia e al Kazakhstan. Tutto ciò è inverosimile. E non lo diciamo perché è anche l’Italia tra i bersagli designati e proprio all’indomani di una manovra economico- finanziaria senza precedenti e di un cantiere di liberalizzazioni e di riforme altrettanto rivoluzionario, ma perché non crediamo che le agenzie di rating valutino con sufficiente rigore e serenità. Gli esempi non mancano e la letteratura in materia abbonda: le tre "sorelle" – S&P, Moody’s e Fitch – in passato sono incorse in errori di valutazione clamorosi.
Ma ancor più paradossale è il fatto che S&P – quasi a orologeria – abbia declassato il nostro Paese in prossimità dei medesimi provvedimenti che aveva sollecitato come "stabilizzatori" del rating. Che cosa ha provocato questa inversione di giudizio che fa dire a S&P: «Con il nuovo governo Monti la politica italiana è profondamente cambiata, ma i progressi non sono sufficienti a superare i venti contrari»? E soprattutto, con quale facoltà e prerogative senza appello si crocifigge un Paese, un’economia, una classe politica, un governo? Perplessità che anche Pechino comincia a condividere, sollevando «dubbi sulla credibilità delle agenzie di rating e sulla loro tempistica». Significativa a questo proposito una dichiarazione di ieri di Angela Merkel: «Bisogna rivedere le norme per le agenzie di rating per limitare la dipendenza dai loro giudizi». Sagge parole, non supportate però sinora da analoghi comportamenti. Perché se è vero che dietro a questi autentici poteri irresponsabili ci sono forti interessi (americani soprattutto) e tanti spettatori tutt’altro che disinteressati, è vero anche che il nocciolo della maggior parte dei rapporti-pagella (i famosi outlook) delle agenzie di rating è assolutamente condivisibile. E nonostante certe previsioni fatte filtrare sapientemente prima di un verdetto (in gergo si chiamano
self fulfilling prophecies,
ovvero "profezie autoavveranti") finiscano per provocarne davvero l’effetto, rimane il fatto che l’Europa è un gigante malato e che l’Italia è fra i suoi pilastri quello più bisognoso di cure, di riforme, di razionalizzazione degli sprechi, delle false priorità e dei veri privilegi. Criticare le agenzie di rating non deve essere un alibi per fingere che i sacrifici non siano necessari, che l’emergenza non esista. Esiste, eccome. L’Europa se ne sta accorgendo, si sta svegliando seppure con imbarazzante ritardo. Anche per questo prima o poi (meglio prima che poi) dovrà ben nascere un’agenzia di rating europea, trasparente e senza i macroscopici conflitti di interesse di quelle americane. E anche questa è un’urgenza che riguarda tutti.