giovedì 27 marzo 2014
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Allarmismo gratuito, toni spesso denigratori, manciate di pessimismo. Ma noi troppo spesso non sappiamo reagire. E così sbagliamo. Anzi, l’errore è gravissimo, quando insieme ai nostri figli, guardiamo in modo acritico, senza puntualizzare e senza presentare i distinguo del caso, le notizie sugli immigrati trasmesse soprattutto da certa televisione. Il primo inciampo è di tipo educativo. Noi adulti, noi genitori per primi, dobbiamo saper spiegare che troppo spesso il modo di guardare le persone provenienti da ogni parte del mondo che vivono accanto a noi, nelle nostre città, nei nostri condomini, è viziato da infiniti pregiudizi. Perché la coesione sociale si prepara innanzi tutto in casa. Non basteranno leggi, né appelli, né regolamenti locali per costruire nella comprensione e nel rispetto reciproci una società capace di accogliere e di integrare gli immigrati. Il futuro passa innanzi tutto dalle parole, dai gesti, dagli atteggiamenti che i nostri figli respireranno in famiglia. E quanto più il nostro giudizio sarà costruito sull’immaginario da bar sport nutrito di sarcasmi pesanti e di barzellette odiose tanto più eleveremo una barriera di incomunicabilità tra noi e i nuovi italiani arrivati alle nostre frontiere, sopportando spesso sofferenze e sacrifici indicibili.Eppure, come dimostra in modo lampante il rapporto Cisf su famiglie e immigrazione (lo presentiamo oggi a pagina 5), ci sarebbe un modo semplice e immediato per farsi un’idea più aderente alla realtà. Aprire le porte di casa, scendere in strada, guardarsi intorno senza disincanti. La ricerca dimostra che quando si abbandonano i luoghi comuni e non si ha timore di guardare le persone in faccia, diffidenze e paure diminuiscono in modo significativo. Entrare nel vissuto della famiglia africana o asiatica che abita di fronte a noi, significa fare un passo decisivo dentro un vissuto denso, certo, di problemi e di interrogativi, ma spesso anche di una ricchezza sconosciuta e di un’umanità palpitante. Ci saranno bambini che incontrano gravi difficoltà a scuola, madri e padri alle prese con problemi di occupazione, disorientati di fronte alla complessità della nostra legislazione e spesso incerti per le tante contraddizioni con cui abbiamo saputo ingarbugliare la nostra società. Così, mentre i reciproci meccanismi di autodifesa si allentano per lasciare spazio al desiderio di scoprire realtà molte volte tratteggiate in modo sfuocato e indefinito, non è vietato stupirsi di fronte alla tenacia, alla capacità di sacrificarsi, allo spirito di abnegazione, alla sobrietà che segna lo stile di vita di tante famiglie immigrate. Quella grande voglia di riuscire, di arrivare, di costruire che forse noi non abbiamo saputo conservare come eredità preziosa dalle generazioni che ci hanno preceduto.Nessun buonismo di maniera, nessuna intenzione di edulcorare una realtà che, come sempre, presenta nello stesso momento luci e ombre, aspetti positivi e negativi. Siamo consapevoli che, come avviene in tutti gli ambiti umani segnati dalla sofferenza e dal bisogno, le derive dell’illegalità e talvolta del crimine appaiono spesso l’unica risorsa per dare risposte – sbagliate – alla disperazione che soffoca e confonde. Ma un conto è tentare di comprendere la realtà per quella che è, senza infingimenti e senza semplificazioni, tutt’altro è arrivare a facili e ingiuste omologazioni verso il basso. «Volevamo braccia e sono arrivate persone, volevamo lavoratori e sono arrivate famiglie», si legge ancora nell’introduzione del Rapporto Cisf. Forse la chiave di tutto sta proprio qui. Non dimenticarsi mai che dietro quei volti spesso induriti dalla paura e dal bisogno ci sono figli, padri, madri. E soltanto insieme, famiglie già straniere e famiglie da tempo italiane, costruiremo dentro una salda tradizione umana e civile i nuovi cittadini del nostro Paese.
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