mercoledì 11 giugno 2014
​Dal confronto europeo la via italiana al servizio pubblico.
di Giacomo Gambassi
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Un carrozzone. Una sorta di ministero governato secondo le logiche della lottizzazione politica. Un’azienda che sui giornali è sempre «nella bufera». Ma anche la principale industria culturale del Paese. La «mamma» degli italiani. La regina degli ascolti. La «signora» che informa da tutte le regioni, dà spazio alle minoranze e alle diverse fedi, comunica persino con la lingua dei segni e non dimentica gli italiani all’estero. Ogni volta che si parla di Rai ci si imbatte nelle contraddizioni e nei paradossi che accompagnano la sua storia. Va riformata, sentiamo ripetere da decenni. Negli anni di Ettore Bernabei lo chiedevano i partiti del centrosinistra alleati con la Dc. In quelli in cui venne teorizzato il compromesso storico lo pretendevano le opposizioni. All’alba della seconda Repubblica lo volevano tutti: per rompere il cordone ombelicale che la legava ai partiti. Adesso lo propone il premier Matteo Renzi. Che annuncia: «Dobbiamo educare la Rai a fare servizio pubblico».Già, ma come si fa servizio pubblico? Ora che si comincia a discutere sul rinnovo della convenzione ventennale – in scadenza nel 2016 – che affida alla Rai l’oneroso compito, l’interrogativo appare più che mai necessario. Per evitare personalismi occorre approfondire la questione. Come fa una ricerca dal titolo «Il servizio pubblico: pluralismo, democrazia, media» curata dal Focus in media, l’osservatorio sulla comunicazione della Fondazione per la sussidiarietà. Lo studio coordinato da Guido Gili, docente di sociologia dei processi culturali all’Università del Molise, viene presentato oggi alla Luiss di Roma alla presenza del sottosegretario allo Sviluppo economico, Antonello Giacomelli, e della presidente Rai, Anna Maria Tarantola. In oltre duecento pagine vengono messi a confronto i servizi pubblici tv dei ventotto Paesi dell’Unione europea e della Svizzera. Ne scaturisce un quadro in cui si va dalle istanze di disimpegno dello Stato alla difesa strenua della televisione «di tutti».Appartiene alla prima prospettiva la chiusura per "fallimento" dell’emittente greca Ert che quest’anno è stata sostituita con una nuova concessionaria o il progetto di privatizzazione della tv pubblica portoghese; rientra nell’altro ambito, ad esempio, la Bbc considerata un modello a livello mondiale. L’Italia è come in un limbo dove il futuro della Rai è tutt’altro che definito. Il governo Renzi non l’ha esplicitato. Per adesso ha decretato un taglio di 150 milioni di euro sui finanziamenti. Ed è arrivato l’annuncio di uno sciopero in programma oggi che ha diviso l’azienda: da una parte i giornalisti che, dopo l’iniziale adesione, hanno fatto un passo indietro; dall’altra Cgil e Uil che restano fermi sulle loro posizioni (la Cisl ha ritirato lo sciopero). La prospettiva di cedere quote di Raiway, la società che ha in mano i ripetitori di trasmissione, per compensare le mancate entrate allarma viale Mazzini. La Rai potrebbe rischiare (sulla carta) di non governare più le antenne da cui irradia i segnali dei suoi quindici canali tv e di quelli radiofonici. Il controllo degli impianti di trasmissione fa gola a molti, come dimostra il fatto che Mediaset ha appena incassato 283 milioni di euro da fondi americani, inglesi e italiani in cambio del 25% di Ei Towers, colosso privato delle torri tv, di cui la società di Berlusconi detiene ancora il 40%. Secondo la ricerca di Focus in media, la Rai rientra fra i servizi pubblici europei «forti» in quanto detiene il 40% del mercato: più o meno quanto accade anche in Svezia, Austria e Finlandia. Persino la Bbc è più fragile (almeno guardando a questa voce) e rientra fra le reti che coprono fra il 21 e il 33% degli spazi, al pari delle stazioni di Francia, Germania, Svizzera o Paesi Bassi. È debole – ossia vale meno del 20% – l’emittenza pubblica in Spagna, Grecia e in quasi tutti i Paesi dell’Est europeo. Uno dei fattori al centro della discussione è quello degli oneri a carico dello Stato. Facile dire: lo Stato deve liberarsi della «sua» televisione, ma siamo sicuri che sia la strada giusta? In un terzo dei Paesi europei la tv pubblica è finanziata solo (o quasi) dal canone: il pianeta Bbc insegna. In Spagna la pubblicità è stata rimossa, mentre in Francia è confinata in alcune fasce orarie e potrebbe essere abolita. In due terzi degli Stati vige un sistema misto dove le imposte si uniscono agli spot. E a proposito del canone lo Stato in cui risulta fra i più cari è la Svizzera (supera i 350 euro annui e siamo in un caso misto di tassa e pubblicità come l’Italia); si arriva ai 200 in Germania e alla soglia dei 200 in Gran Bretagna; mentre in Italia si oltrepassano di poco i 100 euro. Da considerare che da noi non abbiamo un vero e proprio canone: si tratta di un’imposta sul possesso degli apparecchi radio e tv. Però qui si deve fare i conti anche con un’evasione del 27% (rispetto a Inghilterra o Germania dove si ferma al 5%). Ai "furbetti" del canone si potrebbe rispondere inserendo il pagamento dell’imposta nelle bollette di energia elettrica o gas così da renderlo ineludibile. Il quesito cruciale a questo punto è: si può esportare nel nostro Paese un’ipotesi di tv pubblica senza spot? Probabilmente sì, ma significherebbe ridurne drasticamente spazi e ruolo. Se la Rai resta la maggiore azienda culturale del Paese, lo deve ai fattori congiunti dell’ascolto (è intorno al 41% a fronte del 32% della Bbc) e degli introiti pubblicitari (che nel bilancio ammontano al 34,4% delle entrate mentre il canone copre oltre il 60%). Il progetto della fusione di una o più reti ammiraglie o della sua trasformazione in un’azienda sostenuta solo dal canone porterebbe magari la tv di Stato italiana a essere meno schiava dell’audience, ma la relegherebbe in una posizione marginale. Corollario è che il sistema pubblico non debba entrare in concorrenza con le tv private sui contenuti e quindi realizzare produzioni che gli altri network non propongono ma con indici di ascolto limitati, spiega la ricerca. E nel rapporto si avanza anche un’altra soluzione: che non vi sia un’azienda pubblica televisiva, ma che i programmi di servizio pubblico possano essere «appaltati» all’impresa televisiva (anche privata) che meglio risponde agli standard richiesti e al minor prezzo. Con la concorrenza sempre più agguerrita, il comparto si è frammentato. Se chiedete in giro qual è il primo gruppo televisivo italiano, molto vi risponderanno la Rai. Dimenticando che il vero gigante è Sky Italia, al vertice per fatturato. Che ha saputo mettere in atto una strategia di marketing strepitosa: ha convinto quattro milioni e mezzo di famiglie a pagare 360 euro l’anno di abbonamento per pacchetti che intercettano gusti e target precisi, ma al tempo stesso – nonostante il prezzo – ha fatto accettare loro massicce dosi di pubblicità in ogni programma.Quindi, oltre che dai soldi, in casa Rai occorre forse ripartire dall’offerta. Non a caso un’indagine di Inflection Point del 2013 indica l’Italia come il Paese che ha fra le più basse percentuali europee (meno del 5%) di spettatori che considerano i programmi della tv pubblica «molto buoni». Occorre, perciò, continuare a investire, soprattutto in qualità. Ma come farlo in tempi di crollo degli introiti pubblicitari (meno 14% nel 2012) e di mancato adeguamento dell’imposta di Stato? Probabilmente attuando davvero una revisione della spesa interna. In Rai il costo medio del lavoro è di 77mila euro; alla Bbc intorno ai 60mila. Nella nostra tv pubblica i dirigenti pesano per il 4,9% sul totale degli assunti (si arriva al 16% fra i giornalisti) a fronte del 3% della "collega" britannica. Negli ultimi dieci anni il personale Rai è cresciuto, mentre la Bbc ha attuato una riduzione che è arrivata al 22%. L’avvenire ideale della Rai – in festa per i 60 anni della tv e per i 90 della radio – sarebbe quello in cui l’azienda non solo non venga messa in ginocchio, ma sia in grado di ritrovare il suo ruolo nel panorama nazionale. Certo, le critiche – se non nascondono la volontà di livellarla verso il basso – testimoniano un profondo legame verso «mamma Rai» che talvolta può rasentare l’incontentabilità. L’importante è che ognuno risponda con sincerità alla domanda: quale deve essere oggi (e domani) la vocazione del servizio pubblico?

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