martedì 1 dicembre 2009
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Il referendum che ha bocciato la costruzione di nuovi minareti in terra svizzera sta producen­do esiti che rilanciano questioni antiche e nuo­ve. In Italia un esponente leghista di primo pia­no come Roberto Castelli ha lanciato l’idea di ap­porre la croce sul tricolore. Su di essa si è innescato l’ennesimo fuoco fatuo, con sedicenti defensores fidei che pensano di far salire le quotazioni del simbolo per eccellenza del cristianesimo asso­ciandolo (con sorprendenti nostalgie sabaude…) alla bandiera del nostro Paese. L’operazione, in verità, appare di corto respiro: le forti reazioni po­polari alla sentenza sul crocifisso emanata dalla Corte di Strasburgo confermano quanto sia radi­cata nel comune sentire la consapevolezza del valore universale di quello che solo impropria­mente può essere ridotto a mero simbolo identi­tario, e insieme fanno emergere la strumentale leggerezza di quanti se ne vogliono appropriare. E veniamo agli altri (e più seri) nodi problemati­ci che il voto svizzero porta con sé. Va detto che se l’obiettivo dei vincitori è quello di frenare l’a­vanzata del fondamentalismo islamico, il risulta­to che verosimilmente verrà raggiunto sarà inve­ce – in una sorta di effetto-boomerang – la radi­calizzazione di quelle stesse componenti, alle quali viene fornito un buon alibi per presentarsi come vittime dell’ostilità anti-musulmana. Il pro­blema non è tanto come le moschee debbano es­sere costruite (giacché, con o senza il minareto, se ne continueranno a costruire), ma cosa nelle moschee si predica e si fa, quali sono i messaggi che in esse vengono diffusi, in omaggio a una con­cezione che ne fa qualcosa di molto diverso da un semplice luogo di culto e le trasforma in centri di irradiazione di una visione integralista e antioc­cidentale dell’islam. Non è in discussione la libertà religiosa, che ri­mane un pilastro del patrimonio normativo e cul­turale dell’Europa e certo non può essere messo in discussione dall’esito di una consultazione po­polare che va inquadrata nella particolare corni­ce giuridico-istituzionale della Confederazione elvetica (lo spieghiamo nelle pagine interne) e non può essere 'importata' in Italia, come si è af­frettato a chiedere il Carroccio. La libera espres­sione del sentimento religioso appartiene alla ca­tegoria dei diritti individuali e sociali – ivi com­preso quello di convertirsi a un’altra fede – e rap­presenta una delle caratteristiche irrinunciabili dell’Occidente, che segna la differenza rispetto ad altre civiltà (ad esempio quella islamica, che riconosce quei diritti in base all’appartenenza co­munitaria anziché come prerogative legate alla persona). Infine, una considerazione sulla parola 'identità', di questi tempi molto usata e spesso abusata. I promotori del referendum svizzero e i loro cori­fei di altre latitudini si candidano come alfieri di un’identità cristiana minacciata da una nuova in­vasione musulmana, che arriva dopo quelle dei secoli scorsi. In realtà essi riducono il cristianesi­mo a un 'pacchetto' di valori strumentalmente preselezionati. Usandolo come un’arma da bran­dire contro il nemico, indeboliscono la forza di quel Crocifisso che da duemila anni continua a provocare le coscienze di ogni uomo, e che non è né un cimelio della pietà popolare per cui nu­trire un devoto ricordo, né il generico simbolo di una tradizione sociale e culturale, ma una pre­senza viva che dà spessore alla parola 'identità', altrimenti riducibile a un’entità ideologica. La cro­ce di Cristo parla a tutti e non ferisce alcuno. Per i credenti è la fonte di quell’energia che consen­te di aprirsi (senza irenismi o ingenuità) al con­fronto con l’altro e di vivergli costruttivamente accanto. L’Europa, nata dall’incontro fecondo del cristianesimo con l’impero romano e le civiltà barbariche, non può fare a meno di misurarsi con quanti ne hanno fatto la loro nuova dimora. E può farlo solo a partire da un’identità tanto forte quan­to aperta.
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