giovedì 10 maggio 2012
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​Assorbiti, come tutti siamo, dalla crisi economica che ci assilla e dagli interrogativi sulla capacità della politica di riformare se stessa, stiamo largamente distogliendo l’attenzione dalle questioni bioetiche che hanno infiammato per mesi e mesi il dibattito pubblico in Italia e in particolare dalla cruciale questione del «fine vita» e della sua regolamentazione giuridica. Questo giornale, come suo solito, fa eccezione. Ma la realtà è che facciamo addirittura fatica a ricordare che entrambi i rami del Parlamento, Senato e Camera, si sono già pronunciati in prima istanza, votandolo, su un disegno di legge in materia (quello sulle Dat, le "dichiarazioni anticipate di trattamento" medico) e che l’ultima versione di questo disegno di legge è dallo scorso anno di nuovo all’attenzione, o meglio alla disattenzione, del Senato, che è chiamato a valutarne la stesura definitiva, ma continua a manifestare evidenti difficoltà a calendarizzare l’esame e il voto del testo.In realtà, questa disattenzione tocca più la classe politica che non l’opinione pubblica. In tutto il Paese, infatti, continuano a essere attivati dibattiti sul cosiddetto «testamento biologico», sull’accanimento terapeutico, sull’eutanasia; iniziative dal carattere a volte meramente informativo, a volte, invece (anzi, il più delle volte), di forte impegno etico, sociale e (perché no?) ideologico. È evidente il rischio che tutto questo lavoro di informazione e formazione dei cittadini e della pubblica opinione vada perduto o comunque che la tematica del fine vita torni a entrare in quel cono d’ombra cognitivo e decisionale cui la buona volontà di alcuni parlamentari ha cercato di sottrarlo.Se quanto appena detto appartiene all’ordine dei fatti (e i fatti, lo sappiamo, sono «resistenti»), quanto segue appartiene invece all’ordine, ben più insidioso e scivoloso, delle «valutazioni». Ha un significato questa inaspettata rimozione di una tematica che sembrava, negli ultimi tempi, della massima urgenza biopolitica? Erano in errore i promotori e i fautori del disegno di legge sulle Dat, che tanto hanno fatto per farlo divenire legge dello Stato, o sono piuttosto in errore coloro che oggi riescono, con indubbia abilità, a sottrarlo alla sua approvazione finale? Oppure bisogna pensare che in una situazione di crisi economica, come quella attuale, ogni altra tematica politica (e biopolitica) debba passare in secondo piano?Sarebbe sconfortante se così davvero fosse, se realmente, di fronte alle istanze dell’economia, dovessimo rimuovere qualsiasi altra questione dal dibattito politico e soprattutto le questioni legate alla vita e alla morte. Questo equivarrebbe non tanto a confermare l’enorme rilievo che le contingenze economiche possiedono per qualsivoglia comunità politica (cosa assolutamente incontrovertibile), quanto (il che è ben più preoccupante) a sottolineare un primato assoluto dell’economia sulla politica e in particolare sulla politica della vita. Questo però è inaccettabile, non per ragioni ideologiche, ma per ragioni fattuali: per dirla con la massima semplicità, la vita viene prima dell’economia. Una verità, questa, si osservi bene, che prima ancora di essere filosofica, è economica. Lo dimostra il fatto che gli stessi economisti da anni conoscono e discutono il cosiddetto «paradosso di Easterlin», che mostra come la felicità delle persone non aumenti proporzionalmente alla quantità di denaro a loro disposizione.In realtà, la rimozione della cruciale questione bioetica del fine vita ha la sua migliore spiegazione non nella crisi economica, ma nella crisi morale che sta attraversando il nostro Paese e che si rispecchia nell’evidente smarrimento che sta paralizzando le forze parlamentari, mai come in questo caso espressive di un analogo smarrimento, quello dei cittadini che quelle forze sono chiamate a rappresentare. La dilagante sfiducia nei confronti del sistema partitico-parlamentare (al quale, in buona sostanza, è affidata la gestione pubblica di tali questioni), la convinzione sempre più radicata che i problemi bioetici siano irresolubili, o almeno che molto difficilmente per risolverli si possano trovare soluzioni legislative condivise, sembrano aver attecchito in profondità nell’opinione comune.Gli esiti di questi rassegnati convincimenti sono però rovinosi; quando una comunità rinuncia a legiferare su alcune materie, ritenendole ingestibili, solo perché altamente controverse, non avverte che sta comunque dando loro una soluzione, che però, non avendo carattere legislativo, non ha nemmeno carattere democratico. Il deficit di democrazia, che molti avvertono come la massima preoccupazione di questo momento storico che sta vivendo l’Italia, si rivela tale anche in prospettiva biopolitica. Sarebbe ora che i partiti se ne rendessero conto e riattivassero e concludessero il dibattito sul fine vita. Il nostro auspicio, naturalmente, è che venga approvato il testo di legge che – con accurato rispetto per civiltà e persona umana – è stato elaborato in Parlamento. Comprendano i partiti e i loro attuali leader che è pure per questa via che possono ricominciare a chiedere ai propri elettori, e più in generale alla pubblica opinione, appoggio e stima.
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