martedì 17 gennaio 2012
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Se a Milano o a Palermo o a casa tua vai dal giornalaio, ti offrono un libro di poesie con un grande quotidiano. Se accendi la tv potrai vedere in chiusura del tg di una grande rete narratori che leggono loro brevi racconti (è accaduto) o poeti che leggono pochi fulminanti versi (accadrà). Sui migliori canali satellitari o digitale terrestre puoi trovare intelligenti appuntamenti con la poesia. Più in generale, si approntano siti a tema d’arte e letteratura legati a grandi network. Se a Londra vai al fast food e prendi un certo prodotto per i tuoi figli ti danno in omaggio un libro. Di che cosa è segno questo lavorio? Disperazione di librai e editori che se ne inventano di tutti i colori per piazzare una merce? O fame di lettura che ha convinto i responsabili di luoghi e media popolari a cercare di volare non solo mediobasso? Il fenomeno, naturalmente, si compone di tanti elementi. Alcuni già sperimentati in passato (i quotidiani da tempo allegano di tutto) e la tv ha già avuto in passato qualche momento di coraggio. E altri nuovi. Al di là degli elementi più evidenti – occasioni distributive nuove, e in tempi di "crisi" la poesia può offrire motivi di riflessione profonda e nuove visioni – c’è un altro dato meno evidente ma forse più importante. La cultura e il suo più antico strumento ancora in uso, il libro, stanno diventando "strani". E la poesia continua ad essere la più "strana" in mezzo a tutte le arti e le comunicazioni. Pare un controsenso. Verrebbe da pensare: se la diffondono così (e i libri vanno, le trasmissioni sono viste) significa che allora la poesia è diventata normale nel nostro panorama culturale. Ma non lo è. Nel momento in cui la grande comunicazione (e grandi catene distributive) cominciano ad offrire poesia non significa che essa è già divenuta un bene diffuso e percepito come essenziale da una grande maggioranza delle persone. È vero quasi il contrario. Significa che è una "merce" – secondo i promotori di tali iniziative – che può esercitare un appeal, un richiamo di novità presso un "pubblico" di clienti che non lo ha ancora gustato. E che ne ha "pre-sente" il valore ma non ne è ancora consapevole. Non si tratta di una valutazione quantitativa. I lettori di poesia non saranno mai moltissimi, per il semplice fatto che la poesia non si condivide essenzialmente attraverso i libri, ma attraverso l’oralità, oggi arricchita dalla radio e dai tanti strumenti di conversazione privato-pubblica. Ai tempi di mio nonno, anche il più incolto teneva in gran considerazione la poesia, sapendone almeno qualche mozzicone. Oggi è difficile che tale considerazione ci sia nella maggior parte dei nostri ragazzi iperscolarizzati. Il che apre due grandi interrogativi. Il primo: possibile che in Italia, patria della grande poesia da sempre insegnata forzatamente in ogni ordine di scuola, se ne pre-senta (soltanto) il valore? Il secondo: da dove nasce questa fame ancora selvatica, inquieta di poesia che viene colta da chi, come il sottoscritto, vaga per la penisola parlandone a ogni genere di persone? Fame selvatica, appunto. E come è successo che il nostro paese, culla della poesia che ha fatto da canone all’Europa intera e quindi al mondo, con Dante, Petrarca e fino al Novecento potentissima e riconosciuta (D’Annunzio, Pascoli, Campana, Montale, Ungaretti, Quasimodo, Luzi, Pasoli...) sia abitata da una fame "selvatica"? Cosa ci hanno fatto? I professori, i maestri, gli intellettuali, i media, e anche certi presunti poeti, cosa hanno fatto per renderci così selvatici? La domanda inquieta e ben venga ogni iniziativa – di giornali, fast food, e specialmente della tv – per far balenare agli italiani d’aver tra le mani una risorsa importante. Gratis e impagabile.
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