«Quest'Italia schiava del debito come nel 1920...» Oggi il rischio è persino
sabato 27 ottobre 2018

Caro direttore,
in questi giorni di convulse discussioni in ambito di Governo dopo il varo di provvedimenti che potrebbero generare nuovi aumenti di debito pubblico (già così alto), mi è capitato di rileggere un opuscoletto con il discorso pronunciato dall’onorevole Filippo Turati il 26 giugno 1920 in cui, rivolto all’allora Governo Giolitti, così si esprimeva: « ...facciamo un po’ di conti, onorevole Giolitti. Voi confessate che abbiamo un deficit, in un solo anno, di 18 miliardi: 28 di spesa contro 10 di entrata. Confessate che abbiamo 95 miliardi di debito, che presto – crepi l’astrologo – toccheranno i cento, per arrotondare la cifra, dei quali 20 o 21 in oro verso l’estero, che al tasso attuale, farebbero salire il debito di un’altra metà, e poveri noi se li dovessimo pagare davvero... ». Sono passati quasi cento anni da allora, ma la situazione della nostra Italia non sembra per nulla cambiata.

Luigi Turati

Il lettore Turati cita il politico Turati, e tira conclusioni assai amare sull’Italia di oggi, purtroppo di nuovo con conti esplosivi... Sappiamo che notte “nera” venne, poi, in quegli anni Venti del secolo scorso. Ebbene, in realtà, pur restando solo sul piano economico, la situazione della nostra Italia è cambiata: il rischio è più alto per il “feroce” contesto finanziario internazionale e per oggettivi fattori interni di debolezza. Il problema non è, ovviamente, la sacrosanta scelta di fare politiche per contrastare l’impoverimento di coloro che vivono in Italia o la decisione (opinabile, ma legittima) di abbassare ancora il peso fiscale su una limitata fascia del mondo della piccola impresa e del lavoro autonomo. Arrivo a dire che il nodo non è nemmeno l’ennesimo condono fiscale faticosamente rivisto e corretto, ma che per noi di “Avvenire” come ogni condono (e nell’ultimo quarto di secolo abbiamo dovuto dirlo chiaro e tondo a Governi di tutti i colori) resta scorretto e diseducativo perché spinge a disprezzare quella “lealtà” fiscale senza la quale le tasse continueranno a essere una maledizione e non lo strumento di giustizia (re)distributiva della ricchezza disegnato con saggezza dalla Costituzione repubblicana. Il problema sono i tempi e i modi con cui si sta facendo tutto questo, e per di più all’ombra di un debito pubblico che va “governato”, e non ignorato. Ne abbiamo scritto e fatto scrivere moltissimo su queste pagine durante una campagna elettorale segnata da promesse belle e (largamente) impossibili, ma vinta da coloro che ne avevano fatte di più suggestive e che da nemici giurati si sono convertiti in alleati nell’attuale governo Conte-Di Maio-Salvini. Ora i nodi vengono al pettine, ed è francamente difficile meravigliarsene. Mi auguro che tutto, come per miracolo, si componga in armonia e la palla di neve che si va facendo valanga di cui ha scritto ieri il professor Matteo Rizzolli (tinyurl.com/italia-rischia-ildefault) si sfaldi al sole di un autunno “caldo” solo per i tanti buoni “cantieri” aperti. Ed è un augurio del cuore, la ragione – ahinoi – dice altro.

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