mercoledì 24 marzo 2010
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«Quella energia morale che avevamo dentro e ha consentito a una nazione, uscita dalla guerra in condizioni penose, di ritrovarsi in qualche decennio fra le prime al mondo, quella forza vitale, che fine ha fatto?». La domanda posta dal cardinale Bagnasco tra le righe della prolusione al Consiglio permanente della Cei torna in mente davanti ai numeri del rapporto 2009 del Cisf, Centro internazionale studi famiglia, presentato ieri. Tra i tanti dati, una risposta colpisce. Perché gli italiani hanno così pochi figli? Perché, se mediamente ne desidererebbero due, si fermano spesso al primo, e unico? Sorprendente, ma nemmeno il venti per cento degli intervistati si concentra solo sulle motivazioni economiche (che purtroppo, come si sa, pesano da noi più che altrove). Anche la scarsità di tempo per la famiglia, o di servizi per l’infanzia, e perfino la precarietà del lavoro, sembrano contare poco rispetto a quella grande "fetta" di risposte (58%) che indica ragioni psicologiche e culturali: incertezza, paura del futuro, difficoltà a impegnarsi nella educazione. Timore insomma di non farcela, di non sapere o potere essere padri.In questa Italia, nel cuore del Primo mondo, da sessantacinque anni in pace, non si fanno figli, come lambiti da una indefinita paura. In quale mondo vivrà, quel bambino? Come se inquietudini diverse formassero insieme una cortina di sbarramento, un "no" più viscerale che meditato. Qualcuno, ne abbiamo incontrato uno tutti, lo dice apertamente: perché mettere al mondo dei figli, in un mondo così brutto? (E anche se non siamo d’accordo, non c’è forse una parte di noi che capisce questa angoscia? Quanti, tra i film di successo di questi ultimi anni, descrivono una apocalisse, una civiltà rasa al suolo da guerre o catastrofi naturali? Come se un fantasma inseguisse l’Occidente, e anche noi). Non ci minacciano carestie, né sacchi vandalici, o assedi o pestilenze, un tempo così comuni. Nascere oggi in Italia sembra razionalmente più conveniente che nascere solo cento anni fa, quando si poteva morire di morbillo, e ben pochi andavano a scuola; o nel 1945, quando le città devastate dalla bombe, la memoria dei lutti, l’economia annientata, la fame, avrebbero potuto suggerire di non avere figli, in un mondo che si era appena dimostrato capace di tanta ferocia. Invece, no.I racconti dei vecchi ci testimoniano di città risorte, di fabbriche ricostruite, di scuole in cui si andava a piedi, percorrendo chilometri, e si restava al gelo, e tuttavia si andava: in tanti, giacché di avere figli, nonostante tutto, non si aveva paura. Certo, di mezzo c’è stato l’avvento della pillola, e la metamorfosi da un’Italia contadina a una post industriale – dove le "braccia" non sono più un valore. Ma qui parliamo di desideri: gli italiani oggi non fanno i figli che, quanto a cuore, vorrebbero. Per una confusa incertezza, e anche per un dubbio sulla possibilità reale di educarli. Parlando due anni fa alla diocesi di Roma, Benedetto XVI indicò una «crisi di fiducia nella vita» alla radice della crisi della educazione. Sembra questo un tasto profondo e dolente che riemerge, ora nelle cronache, ora nei numeri di un rapporto sul campo. Sì, l’italiano medio può immaginare che ce la farà, a sfamare e vestire un altro figlio. Ma, a crescerlo? A seguirlo, in un complicato mondo di solitudini e di insidie virtuali? E per insegnargli, poi, che cosa, per spingerlo in quale direzione?I nostri padri sopravvissuti alla guerra avevano la forza grande d’avere attraversato il male e dolore, e di sapere con certezza, al di là di ogni fede politica, di volere vivere, e continuare nei figli. Erano certi, dentro a una tradizione cristiana ereditata oltre alle appartenenze, che la vita ha un senso; e che ogni uomo ha un compito, e un destino. Ci chiediamo quale sarebbe la percentuale di consenso, se la domanda della prossima indagine riguardasse questa questione. I figli che non abbiamo, sono anche forse i figli di un radicale dubbio interiore.
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