Quell’anno in più dei coreani di cui oggi abbiamo tutti bisogno
domenica 2 luglio 2023

C’è un posto al mondo dove da secoli l’età di una persona non si calcola a partire dalla nascita ma da quando comincia la vita: il momento prima del quale un essere umano “non c’era” e dopo il quale semplicemente ha iniziato a esserci “qualcosa”, o meglio, qualcuno. Lo possiamo chiamare concepimento, perché la sostanza è questa. Ma trattandosi dell’eredità di culture millenarie elaborata quando ancora non c’era familiarità con la biologia è meglio fidarsi del modo in cui la loro sapienza ha risolto l’indeterminatezza del “big bang” di ciascuno. Ovvero prendendo la data in cui si è venuti al mondo e aggiungendo un anno. Una convenzione semplice e chiara per la certezza intuitiva da cui attinge, una percezione condivisa da intere società lungo secoli nei quali ha assunto il valore di un’evidenza scientifica: è così, lo sanno tutti. Il fatto è che invece oggi sembrano saperlo in pochi, il mondo accelera e nessuno può permettersi di vivere in un suo fuso culturale isolato.

Così quel posto umanamente incantato dove esistiamo dal giorno in cui siamo vivi e non da quando lo registra un funzionario del Comune ora deve rassegnarsi a consegnare la sua radicata convinzione ai libri di storia adeguando l’anagrafe naturale dell’esperienza di ogni madre a quella burocratica in vigore nel resto del mondo. E dire che a coltivare sinora un proprio calendario non era uno Stato remoto e periferico ma una potenza economica globale come la Corea del Sud, che sta vivendo un periodo di impetuosa espansione nei commerci e nella cultura, tra marchi hi-tech e fenomeni pop, dagli smartphone alle teen-band, col prefisso “K” a griffare prodotti che piacciono a tutto il mondo. Un’ascesa che in pochi anni ha consegnato Seoul al ruolo di protagonista sulla scena del globalismo. Così, per quanto tenacemente legata alle proprie tradizioni, ora la Corea deve fare i conti con gli standard internazionali, come quello delle carte d’identità.

Dopo la riforma del sistema di conteggio, entrata in vigore mercoledì, i coreani ora si vedono togliere un anno. Può far piacere a tutti ringiovanire, ed è inevitabile che un simile adeguamento andasse introdotto per poter assicurare piena cittadinanza in un mondo nel quale la crescente circolazione delle persone obbliga a confrontarsi con gli altri e a cercare un terreno comune almeno sulle regole di base. Ma qui sta andando in soffitta un’eccezione del tutto controcorrente rispetto al flusso di idee collettive, che segna di sé un intero popolo, una consuetudine sulla quale già altri grandi Paesi asiatici come Cina, Giappone e Vietnam hanno dovuto fare dietrofront, e che però ci ricorda una domanda elementare, decisiva: chi sono io? Dove e quando è la mia origine? Qual è il momento, la forza, la relazione che mi ha fatto esistere, e senza i quali ora non sarei qui? Non a caso a custodire per secoli il segreto dell’anno aggiuntivo di vita è stato l’Oriente, che ancora ci insegna a non saziarci della superficie e a interrogare la realtà, sapendola per antica saggezza assai più variegata di quel che appare.

Presi dall’ansia di padroneggiarla, noi occidentali ne abbiamo appaltato la conoscenza al metodo scientifico e la valutazione all’economia, come se tutto fosse riducibile a formule e cifre. Intanto però il nostro cuore continua a chiederci chi siamo davvero, dov’è la sorgente di tutto, spingendoci senza fine a domandarci il significato e il fine di ogni fatto, cominciando dalla vita stessa. C’è una sete di senso che la legge semplificante degli standard globali ha semmai accresciuto. E mentre si afferma in ogni campo un esperanto della conoscenza, perfettamente inquadrato dalla cultura degli algoritmi, l’inesorabile resa anagrafica della Corea ci dice che c’è qualcosa in noi che resiste, non vuole arrendersi, un intuito profondo, un’evidenza di ciò che siamo.

Vita, non database. Un’idea che prescinde dall’antropologia cristiana (il pro memoria proviene dall’Asia) ma che la incrocia sulla natura umana. Il messaggio ci arriva dallo stesso Paese che si fa dominatore della tecnologia e dei consumi, forgiatore seriale di nuovi paradigmi venduti su mercati sempre più voraci e massificanti.

Ora quello strano posto del mondo offre lo sconto collettivo di un anno in meno, quasi volesse blandire i suoi cittadini per fargli digerire una novità che probabilmente hanno già metabolizzato. Ma di quell’anno in più noi in fondo sappiamo di aver bisogno, mai come adesso.

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