Quella debolezza che riapre tutte le ferite
domenica 17 ottobre 2021

Nell’aprile del 1975 vi fu una scaramuccia a Beirut fra un manipolo di palestinesi dell’Olp e un gruppo di cristiani maroniti che stavano celebrando un matrimonio nel quartiere di Ein el-Rommaneh. Fu l’inizio di una guerra civile durata quindici anni, anche se all’epoca era troppo presto per capirlo, sebbene proprio da lì sarebbe passata la famigerata 'linea verde' che divise in due la città. Una guerra che dilaniò la nazione e vide episodi di efferata violenza come l’attentato che costò la vita al neopresidente Bashir Gemayel e la strage falangista nei campi palestinesi di Sabra e Chatila.

Fu in quegli anni, all’indomani dell’intervento armato di Israele in Libano, che nacque Hezbollah, il 'Partito di Dio' di credo sciita composto inizialmente di pasdaran iraniani e pian piano divenuto elemento di punta della longa manus di Teheran nel Paese dei Cedri. Un partito politico e insieme un’organizzazione militare che, in principio, non disdegnava azioni di stampo terroristico. Fu Hezbollah nel 1983 a compiere il sanguinoso attentato dinamitardo che costò la vita a 241 marines americani e 58 soldati francesi. Saldamente presente a Beirut, Hezbollah si impossessò rapidamente del sud del Paese, da Sidone e Tiro fino al confine con la Galilea, costituendovi uno 'Stato nello Stato', complici le profonde divisioni politiche, l’inefficacia della pubblica amministrazione e le complicate e farraginose divisioni di potere all’interno del governo.

Ci vollero altri quindici anni perché la Siria, che nel frattempo aveva preso il controllo militare del Libano, si ritirasse e il Libano respirasse un’aria nuova, dopo tanti lutti. Gli Hezbollah tuttavia erano rimasti, insieme alla loro guida suprema, lo sceicco Hassan Nasrallah. I fatti recenti, le dimostrazioni armate, gli scontri di piazza non del tutto chiariti, il pronunciamiento di Hezbollah contro il giudice Tarek Bitar – colpevole secondo il 'Partito di Dio' di aver deciso di andare a fondo nell’inchiesta sulla terribile esplosione di un anno fa al porto di Beirut (2.750 tonnellate di nitrato di ammonio che hanno distrutto mezza città e provocato oltre 200 morti) e soprattutto di aver emesso un mandato di cattura nei confronti di un ministro alleato degli sciiti di Amal e di Nasrallah – rivelano almeno due cose: la prima è l’attenuazione progressiva della presa di Hezbollah nell’opinione pubblica libanese, la seconda è il parallelo indebolirsi della cosiddetta Mezzaluna Sciita, quel corridoio che si stende da Teheran al Mar Mediterraneo passando per Baghdad, Deir Ezzor, Palmira, Damasco, Latakia, una falce che penetra nel cuore del mondo sunnita e che garantiva fino a poco tempo fa all’Iran una fascia di controllo che tagliava in due la vecchia carta geografica del Medio Oriente.

Complice da un lato il Covid e i suoi effetti devastanti sull’economia di Teheran, dall’altro l’eliminazione di Qassem Suleimani, capo della temuta Forza Quds e stratega delle attività militari iraniane nella Mezzaluna, l’Iran ha smarrito la forza propulsiva di un tempo. Ma anche il Libano ha contribuito a fiaccare la popolarità di Hezbollah: con un debito pubblico al 170% del Pil e i depositi bancari - un tempo superavano di tre volte il prodotto interno lordo - che si sono rapidamente svuotati (frutto in gran parte di furti, ruberie e manipolazioni contabili) a fronte di un’inflazione che dal 2019 a oggi ha eroso del 90% la lira libanese, la rete capillare del partito ha perduto da tempo il consenso del passato. Per questo Hezbollah ritorna a un costume antico: quello della violenza e dell’intimidazione. Lo ha già fatto in svariate occasioni, sia quando stava per nascere un governo sgradito sia quando si tentò di sottrarre al 'Partito di Dio' il controllo delle telecomunicazioni.

Ogni volta che sente minacciata da vicino la sua (onni)potenza, Hezbollah prende le armi. Quello che è accaduto nei giorni scorsi ne è solo l’ennesima dimostrazione. L’importante è bloccare un’indagine (quella sui silos esplosi) che si sovrappone a un’altra, quella sui mandanti ed esecutori dell’omicidio del premier Rafik Hariri del 2005. Il giorno dell’esplosione, il 4 agosto del 2020, era la vigilia della sentenza del Tribunale internazionale. Sul banco degli imputati - tutti latitanti - c’era una cellula di Hezbollah. Che anche oggi, per convalidare il proprio potere infragilito punta a una sorta di golpe permanente. Sulla pelle di milioni (almeno cinque) di libanesi e di profughi siriani al di sotto della soglia di povertà.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: