Quando solo noi uomini davamo il cognome ai figli
sabato 4 giugno 2022

Un’idea di famiglia fondata sulla forza, memoria di tempi che stan finendo La Corte Costituzionale l’ha ammessa, e la pratica è partita subito da Pesaro: da adesso i figli possono avere anche il cognome della madre. A meno che i due genitori non si mettano d’accordo che il cognome sia solo quello del padre, com’è sempre stato.

Ma la decisione della Corte Costituzionale apre una rivoluzione immensa. Cambia tutto, nel nostro matrimonio, nella nostra vita e nella nostra famiglia. Non ho la cultura e l’intelligenza giuridica per giudicare la portata di questa rivoluzione dal punto di vista della Storia e della società, ma posso giudicarla dal punto di vista personale: cosa significa per me, avere dato il mio cognome ai miei figli? Cosa significherebbe se i miei figli avessero anche il cognome della madre? Parlo da maschilista, cioè da uomo figlio della sua storia. Io sono sposato in chiesa, ma non come il mio amico Moravia, che s’è sposato in chiesa perché così voleva la moglie Elsa Morante. No, io mi sono sposato in chiesa perché così volevamo tutt’e due, sia io che lei.

Che differenza c’è tra un matrimonio in chiesa e un matrimonio in municipio? Il municipio unisce l’uomo alla donna, ed essendo tutt’e due mutevoli e provvisori, anche la loro unione è mutevole e provvisoria, e può interrompersi. Il matrimonio in chiesa non unisce lui a lei, ma unisce ciascuno dei due a un terzo elemento, sentito come eterno e immutabile, e per questa eternità e immutabilità il matrimonio è a sua volta immutabile e cioè indissolubile. Ricordo che nel mio matrimonio fu recitata la formula: L’uomo è il capo della famiglia.

Così trovai normale, anzi giusto, che dopo, quando nascevano i figli, fossero registrati col mio cognome. Erano figli miei, dopo di che erano anche figli di mia moglie. Mia moglie ha un bel cognome, molto più bello del mio, ed è Imperatori, il mio è un cognome rozzo, contadinesco, pesante, inelegante, il direttore di 'Tuttolibri' coniò sul mio cognome un epigramma sarcastico che mi seppellisce nella tomba del cattivo gusto, e dice così: «O Camon - nel pavàn - el bon ton - xè cojon». Ai miei figli ho dato la disgrazia del mio cognome.

Qualche volta ho pensato di imbellirlo, spezzandolo in due, così: Ca’ Mon. Ma è tardi, cosa fatta capo ha. Non mi è mai passato per la testa che i miei figli potessero avere il cognome della madre. Essere padre significa dare il cognome. Nella civiltà contadina, che è stata per secoli tutta la civiltà, si dice: i Camon, i Tognon, i Rossin... In questa prassi c’è un’idea, che l’uomo ci mette il seme e la donna l’ovulo, e la vita deriva dal seme, quindi dall’uomo. Il potere dell’uomo sulla donna nasce da lì, è un’idea fisica del potere, l’uomo è più forte, punto e basta.

Da quella forza derivava che quando marito e moglie andavano a votare, il marito mostrava alla moglie il fac-simile della scheda e le diceva: «Fai il segno qui, hai capito?». Una volta mi son permesso di fare un’obiezione: «Ma scusa, non può votare per chi vuol lei?». Mi fu risposto: «Vuoi dire che può votare contro di me? E la famiglia?». La famiglia era una unità se era comandata da uno, se quell’uno ha un pari grado la famiglia perde unità. Io sono un prodotto di quell’unità. Tempi gratificanti per noi maschi. Peccato che fossero sbagliati. Stanno finendo. È giusto così.

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