Quando il Mozambico scelse pace e sviluppo
mercoledì 4 ottobre 2017

Era il 4 ottobre di venticinque anni fa. A Roma veniva firmata la pace per il Mozambico, Paese dell’Africa meridionale, il cui popolo aveva subìto una guerra devastante con più di un milione di morti ed ereditato un territorio a pezzi. Era il Paese più povero del mondo. In un modo originale, fino ad allora inesplorato, si riusciva a risolvere un vecchio conflitto, nato quando il mondo era ancora diviso dalla logica dei due blocchi, Est e Ovest. La comunità internazionale, in 16 anni, non era riuscita a fermarlo. Ce la fecero, in due anni e mezzo di trattative presso la sede romana della Comunità di Sant’Egidio, quattro mediatori 'atipici' – Andrea Riccardi, don Matteo Zuppi, il vescovo mozambicano Jaime Gonçalves e, per il governo italiano, Mario Raffaelli – portando finalmente la pace tra il governo marxista della Frelimo e la guerriglia della Renamo. Come fu possibile? E quale legittimazione poteva avere una semplice comunità cristiana nel portare avanti una mediazione del genere? Certo, un varco era stato aperto dal fatto che sia il governo marxista che la guerriglia non riuscivano a vincere e si combattevano ormai da anni. Tuttavia la legittimazione più profonda risiedeva nella volontà di pace dell’intera nazione: la guerra aveva strappato un numero infinito di vite e distrutto un Paese già impoverito dalla lotta di liberazione dal Portogallo.

La storia di questa particolare mediazione è lunga e complessa e non se ne può qui dare conto. Il tempo del negoziato fu, specie per la guerriglia – che sapeva solo combattere ed era definita dispregiativamente bandidos armados –, una scuola di politica. Le lunghe tornate negoziali consentirono l’evoluzione della mentalità e della cultura dei guerriglieri, preparandoli a discutere su un piano dialogico, radicalmente diverso da quello a cui erano abituati. La pace infatti, per essere fondata, deve necessariamente cambiare anche la mentalità di chi si combatte.

La forza dei mediatori in questo caso si basava sulla loro 'debolezza', quella di non avere un interesse di parte, se non la pace. Come spiegò Boutros Boutros Ghali, allora segretario generale dell’Onu: «Sant’Egidio ha lavorato discretamente per anni al fine di far incontrare le due parti. Ha messo a frutto i propri contatti. È stata particolarmente efficace nel coinvolgere altri perché contribuissero a una soluzione. Ha messo in atto le sue tecniche caratterizzate da riservatezza e informalità, in armonia con il lavoro ufficiale svolto dai governi e dagli organi intergovernativi. Sulla base dell’esperienza mozambicana – precisò – è stato coniato il termine 'formula italiana' per descrivere questa miscela, unica nel suo genere, di attività pacificatrice governativa e no».

Indubbiamente le trattative portate avanti da Sant’Egidio per il Mozambico hanno costituito una vicenda atipica per la diplomazia internazionale, in primo luogo per l’originale composizione dei mediatori. Elementi che sulle prime parevano di debolezza si sono rivelati indispensabili al buon fine dei negoziati. La cosiddetta 'formula italiana' ha avuto la capacità di aggregare attorno a sé risorse ed energie di vari Paesi: si affiancarono osservatori internazionali quali le Nazioni Unite, gli Stati Uniti, la Francia, la Gran Bretagna, il Portogallo e non mancò il contributo del nuovo Sudafrica di De Klerk e dello Zimbabwe. Alla pace in Mozambico non si giunse in forza di un determinismo storico o di un meccanismo politico, ma attraverso una singolare mediazione che ha saputo mettere insieme forze e competenze diverse oltre alla volontà di pace di una comunità cristiana.

Narrare questa vicenda non è solo riproporre una storia di successo, ma mostrare come, pur senza una forza politica o economica alle spalle, si possa giungere a un accordo e alla fine della guerra. Per il bene di una nazione che oggi può guardare al futuro. La speranza di vita è salita da 44 anni a 52, la popolazione è cresciuta da 14 a 27 milioni e il Mozambico ha risalito ben ventisei posizioni nella classifica dei Paesi più poveri del mondo, con un reddito pro capite da 60 euro agli attuali 480, otto volte di più. La pace ha portato tanto sviluppo. Non ancora abbastanza, ma tanto.

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