martedì 5 giugno 2012
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Presidente che abbaia non morde. Non per mancare di rispetto a Vladimir Putin, l’uomo che fu definito grigio e che potrebbe battere molti record di permanenza al potere. Ma la grinta sfoggiata durante il vertice bilaterale tra Russia e Unione Europea ha l’aroma un po’ svanito delle bottiglie di vino rimaste troppo a lungo aperte. Sembra la traccia di un’epoca ormai svanita, quella del confronto a tutto campo con l’aggressiva amministrazione Bush, e non la linea su cui è possibile condurre la Russia in una fase in cui tutti, più o meno, hanno capito che dalla crisi globale si esce solo collaborando, e non polemizzando.A rendere ancor più assurdo questo atteggiamento è la pratica quotidiana dell’economia. La contrazione generale della crescita (la Banca mondiale ha calcolato che nel 2011 il Pil complessivo dei Paesi ricchi è aumentato solo dell’1,6%, contro il 2,7% registrato nel 2010) ha fatto scendere il prezzo di gas e petrolio, di cui la Russia è rispettivamente primo e secondo esportatore mondiale. Entrate in forte calo, quindi, e insieme una stangata su tutti i settori non energetici fondamentali dell’economia russa: costruzioni, trasporti, manifatture.Per tenere a galla il Paese, il Cremlino ha speso finora più di 200 miliardi di dollari dei 600 che, nel 2008, aveva nel suo Fondo di stabilità, il terzo più ricco al mondo dopo quelli di Arabia Saudita e Cina. Per cui, se l’Europa non può produrre senza attingere al gas e al petrolio russo, la Russia non può campare se l’Europa non cresce, non diventa più forte e più prospera. Cosa di cui il Cremlino, al di là della retorica a uso interno, è ben cosciente, tanto da aver investito 5 miliardi di dollari nell’acquisto della società che controllava i gasdotti della Bielorussia. Rimbrottati i vertici Ue, Putin è partito alla volta di Pechino.Anche qui, nella speranza di fare buoni affari con l’esportazione del gas (ma i cinesi non mollano sul prezzo) e ancor più della tecnologia aerospaziale e militare. Alla vigilia degli incontri cinesi la parte russa ha enfatizzato il presunto asse Mosca-Pechino sulla Siria, con la relativa ostinazione a sostenere Assad e a bloccare presso il Consiglio di Sicurezza dell’Onu qualunque progetto di sua condanna o di sanzioni, poche ore prima ribadita a Barroso e Van Rompuy. Ma quello tra Russia e Cina non è in alcun modo un rapporto tra pari. Gli affari prosperano (l’interscambio commerciale del 2011 ha raggiunto gli 84 miliardi di dollari, più 40% sul 2010), eppure le strategie di Pechino sono spesso imperscrutabili e sempre imprevedibili.Il progetto del gasdotto diretto è bloccato da sei anni e intanto la Cina ha stretto accordi con Uzbekistan e Turkmenistan. E se domani Assad non servisse più per mettere in difficoltà gli Usa, i dirigenti cinesi lo mollerebbero senza batter ciglio, come già fecero con Gheddafi. Così, per paradosso, la grinta di Putin fa risaltare ancor più l’assenza di un’idea di governo nuova, un po’ più originale della solita trimurti Cremlino-petrolio-nazione. Il Presidente che negli anni Duemila diede ai russi l’agognata stabilità fatica oggi a soddisfare la richiesta della successiva generazione: cambiamento, movimento, discontinuità. Lo salva, al momento, l’assenza di una precisa strategia politica nelle opposizioni. Ma se si considerano l’età di Putin (60 anni appena), la durata del suo mandato (6 anni, rinnovabili) e le sue indubbie doti di uomo d’apparato e di potere, la Russia pare avviata a una lunga e un po’ deprimente fase di conservazione. Uno zastoj (stagnazione) che, fatte le debite proporzioni, ricorderebbe quello di Brezhnev non è esattamente ciò di cui i russi (e nemmeno gli europei) sentono la mancanza.
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