giovedì 8 marzo 2018
Un lettore ricorda la «ribellione» a parti dell’enciclica su sessualità e regolazione delle nascite. E non crede alla scelta di Paolo VI di porre altri accenti. Ma è così...
Profezia del Papa dell'«Humanae Vitae» e delicatezza con ferite e turbamenti
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Gentile direttore,
presto avremo la canonizzazione del beato papa Paolo VI, questa è una grande gioia e siamo riconoscenti a papa Francesco soprattutto noi persone anziane come il sottoscritto (77 anni) che hanno vissuto il tempo del Concilio Vaticano II e il tempo del pontificato di Paolo VI. Un grande e profetico Papa che ha molto sofferto per il suo amore a Cristo, alla Chiesa e anche all’Italia. Quest’anno è anche il cinquantesimo dalla promulgazione della sua enciclica Humanae Vitae, e ben ricordo quanto dolore gli ebbe a procurare una certa ribellione proprio da parte dei suoi amici. Ricordo molto bene questo ambiente: ero stato presidente della Fuci di Genova nei primi anni 60 e poi avevo frequentato le settimane teologiche dei Laureati cattolici: l’anno ’68 fu drammatico! L’amarezza di quella settimana mi segnò molto: un’acredine e un conformismo alla vulgata anti-Papa spiazzante. Solo un teologo ebbe il coraggio, di fronte a un numeroso uditorio ostile, di difendere il Papa e la sua missione e ne seppe anche intravedere l’ispirazione profetica sulla futura deriva antropologica e di manipolazione della vita umana. Si chiamava padre Enrico di Rovasenda, domenicano del convento di Santa Maria di Castello, a Genova. Ho letto con interesse nell’edizione di domenica 4 marzo 2018 di 'Avvenire' l’articolo di Luciano Moia sul carteggio tra Paolo VI e l’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla, il futuro Giovanni Paolo II. E mi corre l’obbligo di segnalare una informazione – probabilmente sfuggita al dottor Moia – che corregge la narrazione riguardante Paolo VI che non avrebbe più parlato di quella grande enciclica. In realtà, praticamente quasi in articulo mortis, il 28 giugno 1978 nell’Omelia ' fidem servavi' (quasi un testamento spirituale?) disse: «Dell’Humanae Vitae ringrazierete Dio e me… Non abbiamo fatto altro che raccogliere questa consegna, quando dieci anni fa, promanammo l’Enciclica Humanae Vitae (25 luglio 1968): ispirato all’intangibile insegnamento biblico ed evangelico, che convalida le norme della legge naturale e i dettami insopprimibili della coscienza sul rispetto della vita, la cui trasmissione è affidata alla paternità e maternità responsabili, quel documento è diventato oggi di nuova e più urgente attualità per i vulnera inferti da pubbliche legislazioni alla santità indissolubile del vincolo matrimoniale e alla intangibilità della vita umana fin dal seno materno». Con i più cordiali saluti.

Sebastiano Tanca Milano

Il direttore mi chiede di dialogare con lei, gentile signor Tanca, e io lo faccio ben volentieri su un tema così importante come l’Humanae Vitae che segnò un passaggio chiave, arduo e luminoso, nel Pontificato del grande e amato Paolo VI, ma fu anche l’inizio di quella frizione sui temi della sessualità e della regolazione delle nascite di cui continuiamo a sperimentare le tante e complesse conseguenze. Una situazione, quest’ultima, che si determinò al di là della volontà del Papa e del suo impegno coraggioso per innestare la parola dei predecessori nel rinnovato discorso sulle Chiesa e il mondo articolato dal Concilio Vaticano II e sulle istanze che chiedevano di mettere in primo piano il ruolo delle coscienza informata dei coniugi in quelle decisioni che, come appunto sessualità e fertilità, entrano direttamente nella “ministerialità” coniugale. Quali furono gli elementi che determinarono le reazioni negative di gran parte della “base ecclesiale” ma anche dei più importanti episcopati mondiali alla pubblicazione dell’enciclica? Se ne discute da mezzo secolo, e le risposte sono tutt’altro che esaustive. Ma oggi i teologi più attenti sono concordi nel rifiutare la vulgata “rigorista” che per troppo tempo ha tentato di liquidare la questione come una semplice rivolta contro il “no” alla pillola. Troppo banale e soprattutto ingiusto nei confronti di persone che, per il solo tentativo di tenere aperto lo spazio del dialogo oltre la logica del “si può, non si può” – proprio l’approccio che papa Francesco ha rifiutato nel recente viaggio in Perù, in dialogo con i confratelli gesuiti – pagarono di persona in termini di vocazioni sconvolte e di carriere spezzate in nome di un “politicamente corretto” ecclesiale. Vicende che attendono ancora di essere approfondite e di cui forse vedremo esiti sorprendenti dagli studi autorizzati in questi mesi dalla Pontificia Accademia per la Vita. Quello che è certo è che, come lei stesso ricorda con la sua testimonianza diretta, quella baraonda amareggiò non poco Paolo VI. E che per i successivi dieci anni della sua vita preferì limitare quanto più possibile i riferimenti all’Humanae Vitae. Gli studiosi che si sono occupati del tema – come ho scritto nell’articolo di domenica – indicano quattro circostanze principali, oltre ad alcuni brevi riferimenti tra cui il passaggio dell’omelia che anche lei ricorda. Ma nel discorso più articolato e più ampio sul tema, quello rivolto ai membri delle Èquipes Notre-Dame il 4 maggio 1970, i riferimenti all’Humanae Vitae sono soltanto due, entrambi finalizzati a ribadire la grandezza e il mistero dell’amore coniugale, quasi che il Papa ritenesse più importante sottolineare i fondamenti teologici e biblici del legame tra gli sposi che non ribadire la dottrina sulla regolazione delle nascite espressa dall’enciclica. Una scelta eloquente che si può leggere anche come esito della delicatezza umana e della profondità spirituale di un uomo buono e sensibile come papa Montini che, con grande realismo cristiano, aveva deciso di non toccare più un tema fonte di sofferenza e di angustie per tante coppie cattoliche. E se così è stato, come molto lascerebbe immaginare visto che le parole non si possono equivocare, si tratterebbe di una attenzione che testimonia ancora una volta la grandezza e l’umiltà dell’uomo di Dio che sarà riconosciuto santo tra pochi mesi, capace di sfumare un giudizio, evitando gli accenni relativi, e insieme la prudenza del pastore che ha a cuore soprattutto la salvezza delle anime. E per curare ferite e confortare il turbamento di un’anima serve sempre l’abbraccio dell’accoglienza e la tenerezza della comprensione.

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