Il lavoro ha mille facce, in positivo e in negativo. Ma il volto che dovremmo tenere a mente in questo Primo Maggio è quello di Habib Ulhaq, operaio tessile fiorentino, di Campi Bisenzio. È stato licenziato la scorsa settimana per aver osato chiedere di riposare il giorno di Pasquetta. Come ha denunciato il Si Cobas, infatti, lui e i suoi compagni erano costretti a lavorare per circa 12 ore al giorno tutti i giorni, domeniche e festivi compresi. Tanto che l’azienda – proprietari di origine cinese, una di quelle che cambiano ragione sociale ogni paio d’anni per eludere i controlli – di fronte all’«inusitata» richiesta l’ha messo alla porta assieme a 4 colleghi.
Quello di Ulhaq non è un caso anomalo. È piuttosto la triste icona di un distretto, in cui la cattiva moneta delle imprese fantasma che sfruttano il lavoro nero sta scacciando quella buona delle aziende che rispettano le norme. Alcune delle quali, ormai, si sono trasformate in complici, subappaltando parti di lavorazione a chi, solo violando le regole, è in grado di assicurare tempi di consegna e costi ridottissimi. Quasi sempre facendola franca, almeno finché non ci scappano i morti. Come accadde a Prato il 1° dicembre 2013, in un incendio che fece sette vittime e squarciò il velo dell’ipocrisia di un intero territorio. O come quando, giusto un anno fa, e sempre in quel lembo di Toscana, l’inosservanza delle misure di sicurezza in una fabbrica finì per dilaniare la vita della giovane Luana D’Orazio.
La piaga del lavoro nero, dello sfruttamento dei lavoratori, la scarsa tutela della loro salute non riguardano un singolo settore produttivo o una porzione del Paese. Sono viceversa diffusi in maniera capillare nella logistica come in agricoltura, nell’edilizia e nei servizi alla persona, nell’industria e nel turismo. Il caporalato non è più triste prerogativa del Mezzogiorno arretrato, l’incidenza maggiore oggi si registra nel Settentrione sviluppato. Le violazioni di legge non si riscontrano solo nei campi di pomodoro, ma anche in blasonati centri stampa. Non riguardano esclusivamente i muratori selezionati prima dell’alba in qualche piazza appartata, ma i rider sulle bici alla luce del sole e dei lampioni delle nostre città. Quelli che bussano alle nostre porte o, a volte, come le badanti sono dentro casa nostra, accanto agli anziani.
Cgil, Cisl e Uil hanno opportunamente scelto Assisi per festeggiare i lavoratori e contrapporsi alla logica distruttiva della guerra. E se è vero, come ripete papa Francesco, che «ogni guerra nasce da un’ingiustizia», il nostro sforzo per costruire la pace non può che partire dal sanare le nostre di ingiustizie, da noi stessi, in un ambito fondamentale qual è il lavoro. Occorrono certo più controlli e una repressione efficace che funga da reale deterrenza per sanare le piaghe dello sfruttamento e delle mancate tutele. Ma serve anche una maggiore coscienza nel nostro ruolo di imprenditori, consumatori, utenti di servizi. Soprattutto va recuperato il senso profondo del lavoro, strumento principe con cui non solo realizziamo noi stessi, ma interagiamo creativamente con gli altri e partecipiamo alla costruzione del bene comune.
La nostra resistenza, il nostro impegno sociale e di pace in questo Primo Maggio, allora, stanno nel disarmare lo sfruttamento e restituire al lavoro l’intero suo valore. Perché il volto di Ulhaq (e delle decine di migliaia di altri lavoratori nelle sue stesse condizioni) diventi quello dell’inclusione e del rispetto dei diritti. Non è utopia, è possibile. Come dimostra la scelta del piccolo imprenditore Mauro Marini che ieri ha offerto a Ulhaq e altri 4 compagni un’assunzione regolare nella sua azienda di San Sepolcro. Occorre volerlo.