Il gran nodo dei combustibili fossili
sabato 20 luglio 2019

Dobbiamo fare la nostra parte per fermare l’ulteriore innalzamento della temperatura terrestre, e questa estate infuocata contribuisce a farcelo capire. La gran parte della comunità scientifica ci dice che per arginare la situazione bisogna dimezzare le emissioni di anidride carbonica in eccesso da qui al 2030 e azzerarle entro il 2050. Dobbiamo, cioè, abbandonare i combustibili fossili, ma lo stiamo facendo troppo lentamente: l’80% di tutta l’energia che consumiamo a livello mondiale proviene ancora da lì. Non solo petrolio e gas, che assieme coprono il 53% del fabbisogno energetico mondiale, ma anche il carbone (assai più inquinante) che interviene per il 28%.

Così anche nella produzione di energia elettrica: nel mondo il 40% di essa proviene da centrali a carbone mentre le fonti rinnovabili (acqua, sole e vento) contribuiscono solo per il 25%. Uno dei motivi di questa lentezza sono le condizioni di favore che rendono i fossili artificiosamente convenienti. Una distorsione che si realizza per tre vie.

La prima strada è quella delle sovvenzioni alla produzione: soldi pubblici dati alle imprese energetiche a sostegno di investimenti estrattivi. Secondo l’Ocse, nel 2017 sono ammontati a 24 miliardi di dollari e hanno visto in prima linea Usa, Russia, Cina, Australia, Brasile che usano i soldi dei cittadini per sostenere l’estrazione di carbone e degli idrocarburi più reconditi come le scisti bituminose e i gas da argille. Il britannico Overseas Development Institute parla di energia zombie e si riferisce a tutti quei combustibili che senza sovvenzioni rimarrebbero dove sono perché non sarebbe conveniente portarli alla luce. Essa produce ogni anno più di 1 miliardo di tonnellate di anidride carbonica: il 3% del totale emesso nel 2015 e la stessa quantità emessa da tutto il traffico aereo.

Ci sono, poi, modalità indirette di sostegno come le garanzie sui prestiti bancari, le assicurazioni sulle vendite all’estero, le esenzioni fiscali. E sono proprio quest’ultime la seconda grande strada utilizzata dagli Stati per sostenere i combustibili fossili non solo dal lato della produzione, ma anche del consumo. Valgano come esempio i tagli alle tasse sugli acquisti di carburante accordati a compagnie aeree, centrali termoelettriche, autotrasportatori. Esenzioni a impatto negativo non solo per l’ambiente, ma anche per le casse pubbliche. In Italia, anno 2016, hanno determinato un mancato introito pari a 16 miliardi di euro. A livello dei 44 Paesi più ricchi del mondo, la perdita è stata di circa 300 miliardi di dollari. Nella dichiarazione rilasciata a conclusione del G20 di Osaka, è compreso anche l’impegno a eliminare ogni forma di supporto ai combustibili fossili, ma è necessario che alle parole seguano i fatti. E non è di buon auspicio che dopo quattro anni di costante riduzione, nel 2017 i sostegni siano tornati a salire, registrando un aumento del 5% sul 2016.

La distorsione più ampia è, però e infine, rappresentata dalla possibilità di calcolare i prezzi senza tener conto dei costi umani, sociali, ambientali di produzione e consumo dei combustibili fossili. Gli economisti li definiscono esternalità, perché fuori dal perimetro dei costi di produzione. Questo modo di concepire la formazione dei prezzi ci fa vivere perennemente in tempo di "saldi", realizzati però alle spalle della Terra e della nostra salute.

Secondo una ricerca del Fondo monetario internazionale i danni ambientali e sanitari così provocati sono stimabili in 5mila miliardi di dollari, il 6,3% del Pil mondiale 2017. Se dovessimo includerli nel prezzo dei combustibili fossili, il costo del carbone dovrebbe aumentare del 100% e quello del petrolio del 20%. E questo si stima porterebbe a ridurre le emissioni di anidride carbonica del 28% e le morti da inquinamento del 46%. Nell’Unione Europea si è cercato di mettere una toppa a questa distorsione con un sistema piuttosto complicato che impone alle imprese più inquinanti di pagare una sorta di tassa per ogni tonnellata di anidride carbonica emessa.

L’ importo pagato si aggira sui 15 euro a tonnellata, mentre a detta di molti osservatori dovrebbe essere almeno di 40 euro. Il sistema insomma è da perfezionare e va accompagnato con misure per evitare che gli inevitabili aumenti di prezzo al consumo finale aggravino le condizioni di vita delle fasce più deboli. La rivolta dei 'gilet gialli' ci ricordarci che oltre a intervenire sui prezzi per riportarli a livelli più realistici bisogna intervenire sulla spesa pubblica per dotare la comunità di servizi pubblici capaci di dare risposta efficiente ed efficace ai cittadini. Tutto questo conferma che 'sociale' e 'ambientale' sono due dimensioni inscindibili e che la difesa dell’ambiente va cercata all’interno di un più ampio progetto di società.

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