domenica 28 ottobre 2012
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È in gioco, in Italia, «il posto della magistratura nell’ordinamento costituzionale»? C’è il rischio che i giudici, facendosi carico delle «aspettative di un determinato ambiente sociale» e avendo come bussola il dolore delle vittime anziché «la funzione statale di repressione oggettiva dei reati», interpretino il loro ruolo come quello di paladini della giustizia, chiamati a «dare risposta a ogni genere di bisogno umano», anziché di garanti delle regole? Stiamo abbandonando lo "Stato di diritto" (con l’applicazione di regole predefinite per l’accertamento di responsabilità personali) per scivolare verso uno "Stato di giustizia" di ascendenze peroniste? Queste sono le domande che, partendo da alcuni recenti casi giudiziari, Marco Olivetti ci pone in un meditato editoriale di Avvenire del 24 ottobre. Interrogativi antichi delle democrazie. Una sera del 1947, da poco tornato in Italia dal ventennale esilio, Gaetano Salvemini ricordava, a un gruppo di giovani e impazienti magistrati torinesi, la frase di un giudice americano, che alla richiesta di un avvocato di fare giustizia, rispose: «Io non sono qui per fare giustizia ma per applicare la legge». Forse questa concezione del magistrato da parte di Salvemini è un po’ pessimistica e troppo legata all’idea montesquieuiana del «giudice bocca della legge», come tale inadeguata per una moderna democrazia; e bisogna sperare che il giudice di oggi, applicando il diritto alla luce della Costituzione, possa, contemporaneamente, "applicare la legge" e "fare giustizia". Ma il fatto che le antiche preoccupazioni del grande vecchio repubblicano trovino eco, oggi, nelle analisi di un moderno studioso di diritto costituzionale come Olivetti, ci fa riflettere.Giorni fa, telefonando a una delle nostre migliori trasmissioni radiofoniche, un’ascoltatrice si indignava perché il giudice, ritenendo l’incapacità di intendere e di volere di un imputato di violenza a una donna, lo aveva condannato "soltanto" a 10 anni di ospedale psichiatrico giudiziario. E l’ottimo conduttore non ha neppure tentato di replicare che, se la legge esclude il carcere per il malato di mente, il giudice non può mandarlo in prigione solo perché il fatto è odioso. Questa pretesa che dal giudice vengano risposte che egli non può dare è una febbre che ci dice che il corpo è malato. E, sul tema cruciale di quel che oggi si chiede alla giustizia quando vittime sono le donne, converrà ritornare più ampiamente. Uno di quei giovani giudici che nel ’47 ascoltava le parole di Salvemini ci avrebbe poi ammonito, negli anni di 'Mani pulite', che al magistrato «non si addice il vigoroso colpo di scopa, che manda tutto per aria in un nugolo di polvere, ma piuttosto il freddo e prudente ago della bilancia». Elementare: perché tutti sappiamo che compito del giudice penale è l’accertamento di precisi fatti, costituenti reato, attribuibili a determinate persone. Come pure sappiamo che al magistrato non competono funzioni di tutore della morale e vaghe missioni risanatrici. Il buon funzionamento del processo penale può essere il supporto, la sponda, per questa azione di risanamento; ma la tutela della morale pubblica spetta solo ai cittadini e alla politica che essi sono capaci di esprimere. Eppure, a ben vedere, tutte le bufere che periodicamente si sono abbattute sulle nostre istituzioni e sulla pubblica opinione sono state alimentate e gonfiate dall’incertezza che si creava su questo confine che dovrebbe delimitare etica e giustizia. Da un lato, nutrendo aspettative eccessive verso il lavoro dei magistrati, che veniva così caricato di significati estranei al processo. Dall’altro, accusando i magistrati di invadere il campo della politica e di agire perseguendo fini di parte. Al fondo di questa confusione c’è il vuoto abissale della politica. Dei suoi orizzonti e dei suoi valori: perché se la politica non sa promettere giustizia, i cittadini la invocheranno rivolgendosi a un giudice. Ma anche delle sue responsabilità: perché, se scelte politiche sbagliate non vengono sanzionate politicamente, di nuovo ci sarà la tentazione di chiedere ai giudici di non essere più bilancia ma di trasformarsi in ramazza. E allora si invocheranno 'sentenze coraggiose', decisioni che facciano giustizia nel caso concreto anche andando oltre le regole. Dimenticando che l’unico 'coraggio' che il giudice deve avere è quello di applicare sempre la legge: anche a costo di disattendere le invocazioni di giustizia della folla del Crucifige .
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