Ecco perché una transizione ecologica senza giustizia non salverà il pianeta
venerdì 6 ottobre 2023

Lo strumento creato dalla Commissione europea per aiutare la trasformazione delle imprese e dei territori in chiave ecologica ha un nome bellissimo: Just Transition Fund, cioè Fondo per la Transizione Giusta. È un nome diverso dai soliti acronimi più o meno comprensibili (e a volte un po’ minacciosi) che arrivano dagli uffici di Bruxelles: è speciale per il suo riferimento all’idea di Giustizia, che da tempo sembra tristemente un po’ demodé anche nelle stanze della politica.

C’è un enorme bisogno di giustizia nell’affrontare la crisi climatica, una delle più grandi sfide della nostra epoca.

«Non c’è dubbio che l’impatto del cambiamento climatico danneggerà sempre più la vita di molte persone e famiglie» ha scritto con semplicità e chiarezza papa Francesco all’inizio dell’esortazione apostolica Laudate Deum, pubblicata mercoledì.

Non ci dovrebbe essere bisogno di essere tra quelle “molte persone” che già subiscono gli effetti più brutali del riscaldamento globale per sentire l’urgenza di agire e fare il possibile per ridurne l’impatto. Allo stesso modo, non dovrebbe essere necessario far parte della vasta schiera di chi paga in termini economici e sociali i costi più alti della transizione energetica per capire che le comunità e gli interi territori le cui attività risultano difficilmente compatibili con l’obiettivo “emissioni zero” non possono essere chiamati a rassegnarsi al ruolo di vittime. Perché, semplicemente, non è giusto.

Le storie delle persone che rischiano di essere le “vittime” della transizione si stanno facendo frequenti. Ieri erano gli operai della Marelli di Crevalcore, nel cuore della Motor Valley emiliana, che costruiscono componentistica poco adatta alle esigenze delle fabbriche delle auto elettriche e ora sperano in un piano di reindustrializzazione che dia nuovo futuro allo stabilimento. Adesso ci sono i lavoratori del Porto di Gioia Tauro, le cui prospettive sembrano essersi rivelate precarie quasi all’improvviso. Colpa di una di quelle questione “tecniche” di regole europee di cui spesso, in Italia, ci accorgiamo troppo tardi. Nella riforma del “Sistema per lo scambio di quote emissione di gas a effetto serra”, pubblicato sulla Gazzetta ufficiale europea lo scorso maggio, è previsto l’ingresso del trasporto marittimo tra i settori a cui si applica il principio del “chi inquina paga”. Tutto condivisibile, se non fosse che tra gli effetti collaterali delle nuove regole può esserci quello di incoraggiare le grandi navi che arrivano dall’Asia o dalle Americhe a preferire al porto calabrese gli scali nordafricani come primo punto d’approdo per lo spostamento della merce. Questo perché, com’è ovvio, Bruxelles non può costringere i terminal di Port Said o Tangeri a contribuire all’impegno dell’Ue sul taglio delle emissioni.

L’Europa, per la verità, non può nemmeno costringere la Cina a produrre acciaio secondo modalità green. Anni di dumping cinese, contrastato con poco successo attraverso i dazi dell’Ue e degli Stati Uniti, hanno contribuito a rendere difficile l’attività delle acciaierie europee. In un mercato globale sempre più complicato il rilancio in chiave giustamente e necessariamente ecologica dell’ex Ilva, oggi Acciaierie d’Italia, sembra una missione impossibile.

Nella sua visita a Taranto la commissaria europea Elisa Ferreira ha ribadito che l’obiettivo è portare in Puglia un’industria «pulita e sana». Un altro proposito indiscutibilmente condivisibile. Ma gli operai della più grande acciaieria d’Europa e del suo indotto hanno imparato a conoscere bene la differenza tra quello che la politica vuole e quello che si ottiene veramente.

Spesso l’Europa emerge come la grande potenza debole del pianeta, schiacciata tra i giganti Stati Uniti e Cina. Ma sentirsi europei oggi significa anche potere essere orgogliosi di vivere nell’area del mondo in cui si affronta con più serietà e concretezza l’impegno di tagliare le emissioni di gas serra. È uno sforzo che ha il suo prezzo.

Quando chiediamo che a pagarlo siano i lavoratori della Calabria o della Puglia, terre dove il Pil pro capite è rispettivamente pari 54 e al 61% della media europea, dobbiamo muoverci con più cautela ed essere sicuri di offrire loro un’alternativa che funzioni. Una transizione ecologica senza giustizia non ha speranze di salvare il pianeta.

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