Perché ora serve una diplomazia della speranza
sabato 11 gennaio 2025

Papa Francesco ha ricevuto il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 9 gennaio. L’incontro d’inizio d’anno, tradizionale non solo in Vaticano ma presso molti Stati, non è stato protocollare, ma ha posto una domanda di fondo: a che serve la diplomazia nel mondo di oggi? Una funzione istituzionale dalla storia così antica trova sempre una giustificazione, eppure l’anima di questo servizio che lega paesi, governi, culture, è stata tanto colpita durante gli ultimi anni. Perché è stato colpito a morte il dialogo. Ha detto il Papa: «Il racconto biblico della Torre di Babele mostra cosa succede quando ciascuno parla solo “la sua lingua”». Ha notato poi come le istituzioni internazionali «non sembrano più in grado di garantire la pace e la stabilità»: è sotto gli occhi di tutti, ma è molto triste. Perché la loro decadenza significa che non c’è più una coscienza condivisa del destino comune dei popoli e dell’umanità.

A che serve la diplomazia? Quella accreditata in Vaticano e quella della Santa Sede, che non ha interessi economici o territoriali da trattare? Questa diplomazia, oltre a occuparsi di situazioni circostanziate (che il Papa accenna nel suo discorso), ha di mira il bene comune dell’umanità: in generale - si pensi all’ecologia - o in teatri particolari, spesso drammatici come le guerre. I suoi strumenti sono il dialogo e l’incontro. Strumenti poco valorizzati in questa stagione. Una volta Francesco disse: «Il mondo soffoca senza dialogo».

Ma se il tempo della forza, il nostro, non avrà una svolta, si scivolerà in un mondo conflittuale in maniera parossistica. E in tante guerre: «La guerra è sempre un fallimento!» - ripete il Papa, affermando che non si può accettare che si bombardino le popolazioni civili o che i bambini muoiano di freddo, perché sono stati distrutti gli ospedali o la rete energetica di un Paese.

Francesco ribadisce che bisogna superare la disumanità di tante situazioni di guerra e il linguaggio violento in corso nella politica internazionale: senza diplomazia, cioè senza dialogo e incontro, tale superamento non può avvenire. E lui stesso, la diplomazia vaticana, la Santa Sede e la Chiesa si spendono in modo diretto, formale e informale per imprimere una svolta. È la scelta di fondo della Chiesa di Roma. Lo affermò, nel cuore del Vaticano II, Paolo VI, con l’enciclica, Ecclesiam suam, certo programmatica di un pontificato, ma ben di più, della stagione di vita della Chiesa in cui siamo ancora immersi e che ha dato tanti frutti d’incontro interreligioso e umano. Il dialogo non è accessorio, ma fa parte della missione e del modo di essere della Chiesa nel mondo: «La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» - disse con grande lucidità papa Montini.

La Chiesa si fa parola e vive di colloquio e dialogo in tutti gli aspetti della sua esistenza e missione. L’appello del Papa non è un generoso intervento di un cristiano sensibile al dolore del mondo e al futuro buio cui si avvia l’umanità: sgorga dal profondo della vita del popolo di Dio e dalle fibre della Chiesa. La Chiesa non si fa tacitare né dalla persecuzione (e il Papa accenna ad alcune situazioni), né dall’arroganza dei poteri della comunicazione, e da quelli politico-militari. Lo vediamo sulla questione dei migranti e rifugiati. Mentre prevale una politica di chiusura, risuona la voce del Papa: «Con grande sconforto rilevo… che le migrazioni sono ancora coperte da una nube oscura di diffidenza, invece di essere considerate una fonte di accrescimento». Non si può mettere tra parentesi questo accorato appello.

La debolezza della parola è la forza quotidiana della Chiesa che corrode i muri di odio e di indifferenza. Una parola di verità (Francesco parla di “diplomazia della “verità”), verità religiosa certo, ma anche riferimento alla reale condizione degli uomini e delle donne, dei popoli: «Laddove viene a mancare – conclude - il legame fra realtà, verità e conoscenza, l’umanità non è più in grado di parlarsi… ».

Nella sua esperienza di umanità e nella sua lunga storia, la Chiesa crede nella diplomazia, perché crede nel parlarsi, nell’incontrarsi, nel trattare, venendosi incontro. Per questo Papa Francesco, con evidente allusione al tema di fondo del Giubileo, ha parlato di “diplomazia della speranza”. La diplomazia può rispondere alla sete di speranza di pace, che esiste nei popoli e che la Chiesa percepisce come domanda profonda della gente, specie quando soffre le conseguenze della guerra o è soggetta alle schiavitù della povertà: sete di speranza di fronte a un futuro buio. La sete di speranza può e deve rimettere in moto l’impegno per il dialogo tra i governanti.

Gli assetati di pace non possono rassegnarsi alla situazione attuale. Ci vuole una nuova audacia nel fare la pace con il dialogo e nel chiedere – penso a società civili mature – che si agisca in questo senso. Questo è un incoraggiamento a quanti si muovono sulle frontiere delle relazioni tra i popoli, ma anche un invito a tutti, perché non si rassegnino e cedano alle ragioni urlate e prepotenti della forza, con il suo seguito di mistificazioni e di dolore.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: