venerdì 10 aprile 2015
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​Porsi la domanda se i "diritti umani" sono universali, cioè ritenuti validi e applicabili da tutti i popoli nonostante essi abbiano norme, tradizioni, sistemi politici e sociali diversi, religioni e culture diverse, è fondamentale per cercare di comprendere meglio quale è l’oggetto del dialogo che tutti invochiamo, nella realtà di oggi; realtà contraddistinta da forze centrifughe, che separano e addirittura sfaldano gli Stati mentre essi debbono affrontare la contemporanea presenza di tre sfide globali: terrorismo, criminalità organizzata, economia.
 
Queste sfide riguardano aspetti e materie diverse, ognuna con specifiche peculiarità, ma tutte hanno anche punti di contatto tra loro, che è compito della società civile individuare e contrastare. È giusto quindi porsi la domanda su quali sono i diritti umani, se essi sono universali e se è possibile garantirli in presenza di queste sfide. Vi sono diversi approcci per indicare quali sono i diritti umani. Il primo – quello principale – è quello descrittivo usato dai giuristi: diritti umani sono quelli designati come tali dalla legge; un secondo fa riferimento a una concezione etica e morale, nel senso che i diritti umani derivano dall’idea di dignità della persona umana e debbono essere rispettati quali espressione di giustizia e non solamente indicati da un legislatore.
Tutti riconoscono che il riferimento alla dignità della persona umana è necessariamente uno dei fondamenti oggettivi dei valori che debbono ispirare e governare l’ordine internazionale, ma questo principio basato sull’etica, che già avvicina diritto e religione, è declinato diversamente secondo le diverse concezioni di ciascun popolo. Storicamente diritto e religione giungono alla nostra cultura occidentale dal mondo greco-romano, più precisamente dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma, ossia dall’incontro tra la fede nel Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci (vedi il simbolo perenne di libertà di coscienza incarnato da Antigone) e il pensiero giuridico di Roma. Il mondo occidentale ha però avuto una rivisitazione del rapporto religione-diritto con la Rivoluzione francese e il secolo dei Lumi, con la separazione netta tra "Trono" e "Altare", due realtà nessuna delle quali è superiore all’altra. La nostra cultura greco-romana, innervata dall’illuminismo, è giunta alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti Umani e libertà fondamentali (1950) e agli altri atti internazionali tesi a un riconoscimento sempre più profondo dei diritti della persona. È in questo quadro che si ripropone il tema se oggi questi valori si possono considerare universali, o se invece essi sono riconosciuti solo nel ristretto ambito della cultura "occidentale".
Il tema è naturalmente esploso negli ultimi tempi con la globalizzazione, con la crescente immigrazione, con il tentativo di raggiungere un interculturalismo che consentisse la pacifica ma razionale convivenza tra chi professa religioni e tradizioni giuridiche diverse, con l’acutizzarsi del terrorismo di matrice islamica, in una realtà che è chiamata a dare una risposta che coniughi sicurezza del singolo e della collettività. Oggi nel mondo si confrontano tradizioni culturali e antropologiche del tutto diverse da quella che tendiamo a qualificare come occidentale: da un lato c’è l’islam, dall’altro le culture dell’induismo e del buddhismo, e le grandi culture tribali dell’Africa. Davanti a questa realtà, già Benedetto XVI osservava che il fenomeno chiamato interculturalismo sembra, in vaste proporzioni, mettere in questione la razionalità occidentale e, in qualche misura, la stessa rivendicazione universalista della rivelazione cristiana. In un incontro tenutosi nel novembre 2014 presso l’Istituto superiore internazionale di scienze criminali (Isisc) di Siracusa tra studiosi di diritto italiani e iraniani, è stato dibattuto – per la prima volta tra i nostri due Paesi – il tema dei diritti umani, gli elementi costitutivi dei sistemi giuridici e giudiziari italiani e iraniani e i princìpi ispiratori degli stessi.Il sistema giuridico iraniano è organizzato sulla base dell’evoluzione del pensiero islamico della sharia: tiene in considerazione il sistema di valori morali della propria società e cultura, in qualche modo li serve ed esercita una funzione strumentale alla loro osservazione e protezione. Diritto e religione nella dottrina sciita, sono quindi inscindibili: il vero giurista deve essere anche un teologo, e la funzione di quest’ultimo è quella di consentire una lettura e una interpretazione evolutiva della legge coranica che, poi, ha un riflesso sul progresso del diritto interno. Non vi è quindi spazio per una legge di livello superiore anche internazionale; una Convenzione internazionale può essere recepita nell’ordinamento interno solo se contiene norme e princìpi in linea con la legge coranica. Deve certamente attribuirsi a questa considerazione, la ragione per la quale i Paesi islamici non hanno ratificato la Convenzione universale dei diritti dell’uomo, e l’Iran neppure la Dichiarazione del Cairo sui diritti umani nell’islam del 1990: viene pertanto a cadere il principio della "etero-fondazione" dei diritti umani, sganciata dal potere sovrano dello Stato, che considera questa materia espressione della volontà internazionale in quanto tale, indipendentemente dalla sovranità dei singoli Stati.
Ho potuto constatare una concreta attuazione di questa impostazione giuridica in Nigeria, grande Paese a maggioranza musulmana in diversi Stati federati, in occasione di una visita colà effettuata per illustrare i princìpi della Convenzione Onu contro la criminalità organizzata – che riguardano anche il contrasto alle nuove schiavitù e al traffico di migranti – quando ci hanno osservato che quei princìpi sono per loro estranei e ritenuti una nuova forma di colonialismo culturale. La questione non era quindi la mancata applicazione della Convenzione, ma l’approccio culturale e ideologico alla stessa che rendeva difficile la comprensione dei princìpi in essa contenuti. I fatti di Parigi, le azioni terroristiche in Nigeria, Siria, Iraq, Pakistan ulteriormente esplicitano quanto dichiarato dal vescovo caldeo di Mosul: «È l’antica cultura della nostra convivenza con i musulmani che viene cancellata; cercate di capire voi occidentali che i vostri princìpi liberali e democratici qui non valgono nulla» (Corriere della Sera, 10 agosto 2014), e quanto osservato da Vittorio E. Parsi su Avvenire del 20 gennaio 2015: «Ogni ossessione per il ritorno alla purezza delle origini rischia di implicare una sempre maggiore commistione tra fede religiosa, potere politico e persino lotta armata». Viene quindi confermata la permanente unione nel mondo islamico tra "Trono e Altare" e la difficoltà di applicare nella loro cultura quelli che noi chiamiamo "diritti umani universali". La scrittrice libanese Etel Adnan, rilevando però che anche l’occidente ha abbandonato alcuni suoi valori, osserva che esso è troppo impegnato nell’economia e nelle questioni militari per prendersi il tempo di capire davvero il retroterra storico e culturale del Medio Oriente: è come se la cultura occidentale si sentisse arrivata a un tale punto di "completezza" da pensare che altri universi siano inutili. Qui ritorna in mente il lucido, e già ricordato, insegnamento di Benedetto XVI su multiculturalismo, interculturalismo e diversità dei valori riconosciuti.
 
All’indomani della strage di Parigi quasi tutte le autorità nazionali e internazionali hanno sottolineato la necessità di assicurare maggiore sicurezza ai cittadini e approntare maggiori finanziamenti per realizzare un più soddisfacente inserimento degli immigrati nei nostri Paesi. Tutto questo è assolutamente giusto e necessario. Credo però che non sia sufficiente, anche se la materia qui trattata richiede tempi lunghi e una specie di... rivoluzione culturale. L’obbiettivo deve essere quello di allargare l’ambito di applicazione dei diritti umani, che essi non vengano percepiti come colonialismo culturale, che la cultura islamica non si limiti a dichiarare che gli attuali fatti di terrorismo compiuti da musulmani sono in contrasto con il Corano e che chi li compie non è vero musulmano; tutto questo è troppo facile e non sufficiente: occorre che si spieghi agli stessi musulmani perché quei terroristi sono "contro il Corano".
 
Questa spiegazione e questo intervento, che implicano una interpretazione del loro Libro sacro diversa da quella enunciata dagli estremisti, forse non è ancora ampiamente diffusa tra gli stessi musulmani, ma è quella che più di ogni altra cosa potrebbe innescare un circolo virtuoso per superare anacronistici steccati. Ma molto possono compiere in questa direzione, la cultura e la politica occidentale; debbono essere consapevoli che se limitano i loro interventi alla sicurezza e all’aspetto economico, rimarrà sempre nell’universo islamico la separatezza e la diversa valenza dei valori cui ci si è riferiti. Dobbiamo mirare a fare riconoscere e riaffermare che le nostre due culture, la occidentale, che è stata forgiata dalla classicità greco-romana e dal cristianesimo, e la islamica, entrambe antichissime, entrambe basate su un Testo sacro, entrambe così diverse ma anche così simili, condividono princìpi uguali con riferimento alla persona umana e li ritengono di valore universale.
 
*Procuratore Nazionale Antimafia Aggiunto
 
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