mercoledì 14 aprile 2021
La riflessione di un teologo sui 60 anni dall’inizio del processo Eichmann e sulla «scandalosa» (e agostiniana) affermazione di Hannah Arendt a proposito della «banalità del male» stimola reazioni
La filosofa Hannah Arendt (1906-1975)

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Gentile direttore,

l’articolo di Giuseppe Lorizio («Eichmann e il male, sempre relativo», “Avvenire” dell’11 aprile 2021) sui 60 anni dall’inizio del processo Eichmann e sulla nascita dell’espressione arendtiana della banalità del male è cibo filosofico per il pensiero. Abbiamo riscoperto assai dopo la pubblicazione del libro di Hannah Arendt (avvenuta nel 1963) quella espressione, che sul momento suscitò grande scandalo soprattutto tra l’intelligentsia ebraica, ed è successivamente diventata quasi uno stereotipo per certe rappresentazioni del male, talora del tutto avulsa rispetto alla riflessione filosofico-morale che Arendt sviluppò da allora in poi. Invece, la ricostruzione di Lorizio riconduce correttamente al filo che l’aveva intessuta. In particolare illuminante è il riferimento alla lettera di Karl Jaspers che associa la diffusione del male al contagio biologico. Penso che la filosofa Arendt avesse attinto da Jaspers sia la forza per andare avanti nella polemica (tuttora accesa negli ambienti ebraici) sia alcuni spunti per meglio approfondire il suo pensiero. Infatti, una analogia simile Arendt la propone a Gershom Scholem, in risposta al duro attacco che il principale teologo e filosofo ebraico dell’epoca le sferrò in proposito. Circa l’idea che il male fosse “banale” (questo Arendt aveva visto sul volto di Eichmann, grigio funzionario, ottuso, incapace di pensare), infatti, precisò: «Ho cambiato parere e non parlo più di “male radicale” ... (Fra parentesi, non vedo perché lei qualifichi di ritornello o slogan la mia espressione “banalità del male”. Nessuno, che io sappia, ha utilizzato questa espressione prima di me; ma non è importante). Oggi, il mio parere è che il male non sia mai “radicale”, che sia solo estremo, e che non possieda né profondità né dimensione demoniaca. Esso può invadere tutto e devastare il mondo intero precisamente perché si propaga come un fungo. Esso sfida il pensiero, perché il pensiero cerca di attingere alla profondità, di pervenire alle radici, e dal momento in cui si occupa del male, viene frustrato perché non trova niente. È qui la sua “banalità”». Questo diventò il rovello che l’accompagnò fino alla morte, fino all’incompiuta La vita della mente, dove appunto Arendt provava a superare Kant, a sostituire il pensiero alla ragione kantiana. E ad affermare una radice indissolubilmente morale nell’attività del pensare.

Daniela Belliti

Gentile direttore,

mi permetta un commento – un po’ azzardato, magari – al bellissimo articolo del teologo Lorizio su Hannah Arendt, modificando di poco il detto di sant’Agostino da lui ricordato. «Initium ut esset, creatus est homo, ante quem nullumfuit ». Solo la creatura umana infatti, dotata di ragione e di libertà, poteva e può raccontare la meravigliosa opera di Dio, testimoniarla e renderla vera e viva. Auguri

Santo Bressani


Grazie ad entrambi per l’attenzione dedicata al mio scritto. La lettera della dottoressa Belliti, peraltro esperta del pensiero di Hannah Arendt, mi conforta nell’interpretazione che ho cercato di offrire ai lettori, affrontando anche il rischio dell’attualizzazione. La ringrazio per l’integrazione del passaggio della lettera a Scholem, davvero decisivo per comprendere l’espressione «banalità del male» e la prospettiva “agostiniana” del pensiero qui espresso. Anche il commento del professor Bressani mi sembra molto pertinente. Il ritocco alla frase di Agostino «affinché ci fosse un inizio fu creato l’uomo, prima del quale non esisteva nulla[ invece di nessuno]» rende ancor più in profondità, oserei dire, “metafisica” la riflessione sul male e il prosieguo sottolinea quanto ho cercato di esprimere in termini di “inizio” e di “ricominciare”: la creazione dell’umano (libero e consapevole) è un vero e proprio inizio, anzi nuovo inizio perché non possiamo semplicemente tornare al prima. E vale anche per la contingenza drammatica che stiamo vivendo. Lo dico sempre a proposito dell’escatologia: non saremo come eravamo prima del peccato, la salvezza donata da Cristo non è mera restaurazione. Il new normal, la nuova normalità, dovrà anzitutto assumere la forma della novità, piuttosto che quella del ritorno.

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