Nel corso del 2016 sono sbarcati sul territorio italiano 181mila immigrati, il 18% in più rispetto al corrispondente dato del 2015, e coloro che hanno presentato domanda di protezione internazionale sono stati 116mila, con un incremento del 38%. Se si considera che circa il 60% di tali domande è soggetta a respingimento, e che la stessa sorte è riservata a un terzo dei conseguenti ricorsi, si giunge a valutare attorno a 45mila unità il numero di 'irregolari' imputabile a insuccessi nell’iter di richiesta d’asilo da parte di coloro che sono approdati in Italia nell’anno appena concluso. E gli altri? Che ne è stato dei 65mila che non hanno inoltrato domanda? Tolti i quasi 10mila che sono stati intercettati sul territorio e restano in attesa di un (assai poco probabile) rimpatrio, ne rimangono poco meno di 55mila.
Tra di essi, mentre è ragionevole supporre che molti abbiano lasciato l’Italia per raggiungere oltre confine i propri parenti e/o amici, ve ne è comunque un numero non trascurabile che si è trattenuto, andando così ad alimentare lo stock di popolazione straniera irregolarmente soggiornante nel nostro Paese. A conti fatti, si può sostenere che i 435mila irregolari stimati a inizio anno, che già erano 31 mila in più rispetto al 1° gennaio 2015, abbiano ricevuto nel 2016 – stante il modesto effetto di contenimento svolto dai pochi rimpatri (volontari e forzati) e dalle ancor minori riallocazioni in ambito Ue – un’ulteriore forte spinta al rialzo, sia per l’alta frequenza di esiti negativi delle procedure di protezione internazionale sia per la crescente difficoltà incontrata da coloro che progettavano spostamenti altrove.
La componente 'in transito', il cui peso determinante nel biennio 2014-2015 è certamente valso ad attenuare l’impatto degli sbarchi sulla crescita degli irregolari, potrebbe infatti aver risentito nel 2016 degli orientamenti più restrittivi volti a contrastare - anche per esplicite richieste in sede europea - il fenomeno delle fughe dall’Italia verso destinazioni del Centro e Nord Europa. Così, mentre con riferimento al 2015 sembra realistico ipotizzare l’abbandono del nostro Pese da parte del 90% di coloro che non avevano richiesto asilo né erano stati intercettati – percentuale che si è dimostrata coerente rispetto alle stime di accrescimento dell’irregolarità nel corso di quell’anno – per il 2016 è legittimo immaginare che tale quota andrà rivista al ribasso.
Ad esempio, se ci limitassimo a supporre un flusso di uscite dei non richiedenti asilo pari al 75% del suo potenziale massimo arriveremmo a conteggiare un apporto di circa 59mila unità alla crescita della componente irregolare nel corso dell’anno; apporto che per due terzi sarebbe ascrivibile all’esito negativo delle richieste di protezione internazionale e solo per un terzo alla permanenza in Italia dei non richiedenti asilo. D’altra parte, è proprio grazie alla persistente alta mobilità di questi ultimi che sino ad ora si è riusciti a mantenere un relativo controllo riguardo alla crescita di quella presenza irregolare che, come è noto, risulta per molti versi problematica. Per il 2016 l’alternativa, nel caso in cui tutti i non richiedenti asilo avessero scelto di restare da noi, sarebbe stata quella di dover contabilizzare ben 100mila irregolari in più. Come si vede, la valvola di sfogo della mobilità diventa fondamentale nel garantire, stante i numeri in gioco, un certo equilibrio nel governo dei flussi di arrivo lungo le nostre coste.
Tuttavia, mentre nel recente passato lo 'spauracchio' di un eccessivo incremento della presenza irregolare sul territorio italiano ha verosimilmente alimentato l’orientamento verso un sistema di accoglienza talvolta (convenientemente) disponibile a non scoraggiare i passaggi oltre confine, se guardiamo a un futuro che si prospetta sempre più denso di controlli e ostacoli una simile strategia sembra decisamente meno sostenibile. In sua vece occorrerebbe agire con impegno per dare piena legittimità al riconoscimento in ambito europeo dell’inderogabile necessità di una più ampia partecipazione degli altri partner nella condivisione dei flussi che hanno nell’Italia il primo luogo di arrivo. Un luogo che per altro, come spesso si è avuto modo di verificare, non è affatto l’obiettivo finale dei progetti migratori che stanno alla base degli sbarchi nel nostro Paese.