sabato 13 ottobre 2018
Jeunesse e modernité: preparare i giovani a operare per una civiltà dell’amore è il vero progresso...
Paolo VI e servizio politico: per una città più umana
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In un saggio sulla figura di Paolo VI, che domani sarà riconosciuto Santo, lo storico Carlo Felice Casula dice che due categorie gli stavano particolarmente a cuore, la jeunesse e la modernité. Lo scrive così, in francese: come a sottolineare il profondo legame di Montini con la cultura che ha espresso il personalismo. Non a caso, alla chiusura del Concilio Vaticano II, papa Paolo sceglie proprio Jacques Maritain per consegnare il messaggio agli uomini di scienza e di pensiero: un’evidente dichiarazione filosofica e politico-culturale (fors’anche metodologica).

In papa Montini la fede non si consuma tutta nel tratto individuale, perché si consegna a una dimensione relazionale, vasta come il reale, il mondo: «La Chiesa deve venire a dialogo con il mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa colloquio», scrive in Ecclesiam Suam nel 1964. Di fatto una dichiarazione programmatica: ecco l’uomo, ecco il mondo. Evangelizzare dunque non è un atto propagandistico: è allargare le basi dell’umano per fondare la città dell’uomo. Si risponde così alla precedente civiltà cristiana con la contemporanea civiltà dell’amore. Paolo VI è consapevole che la ricchezza delle culture non possa essere compressa e uniformata, ma vada invece umanamente plasmata per rendere testimonianza della gioia dell’unità dei diversi, che solo la Speranza unisce.

La jeunesse, nell’opera di Paolo VI, si gioca soprattutto sull’attenzione educativa e formativa e sull’allargamento della presenza giovanile nella Chiesa. I giovani sono comunque il futuro della Chiesa e del mondo, e dunque la formazione di una sana coscienza cristiana è prioritaria, si pensi ai discorsi ai giovani lavoratori delle Acli. Ma la jeunesse si gioca nella formazione della classe dirigente del Paese. Montini semina nella Fuci, per coltivare la futura classe dirigente della Dc. D’altra parte questo Paese necessitava di élite sanamente formate. Educare la "meglio gioventù" a diventare classe dirigente in modo cristiano e democratico, non è forse ancora oggi una missione? Chi oggi ha un pensiero così lungo da progettare ancora un’opera di formazione sia popolare sia preparatoria a ruoli pubblici di rilievo? Non è forse importante il governo di una nazione? Ecco, immagino che Giovanni Battista Montini queste domande se le sia fatte e abbia dato una risposta.

E infine la modernité, di una Chiesa che fatica a capire come accogliere le istanze di una modernità non ancora liquida, ma in fase di progressiva liquefazione. Con quale linguaggio parlare alle persone? Alla complessità di un popolo? Paolo VI porta a termine l’intuizione del suo predecessore: il Concilio Vaticano II è una grande opera di aggiornamento. E da lì che partono alcune coraggiose attenzioni, verso l’arte, la politica, l’economia, il lavoro, la pace, la vita. Nella mente di Paolo VI la parola progresso occupa un posto speciale: Paolo VI è un Papa che al futuro rivolge un pensiero profondo. È il Papa che cerca una visione.

Jeunesse e modernité: preparare i giovani a operare per una civiltà dell’amore è dunque il vero progresso. È un compito tutto umano, che richiede discernimento, perché si fatica a leggere gli eventi e a capire cosa essi ci dicano e a quale azione ci stiano chiamando. Quale strada prendere? Da quali luci farsi guidare? Lumina civitatis, lux in Domino: anche le luci della città possono essere luce in Dio se riusciamo a discernere le luci "giuste", quelle che la fede ci sa indicare.

Allargare la fede, allargare le basi dell’umano per costruire la civiltà dell’amore. Così si comprende meglio il progetto di Aldo Moro di allargare le basi della democrazia in un Paese ancora fragile come il nostro assume allora un tono del tutto coerente, come una traduzione politica di un messaggio di enorme portata. E la democrazia ci appare come condizione utile per consolidare i valori umani, e quindi cristiani.

Ci coglie la vertigine nel tempo difficile e aspro che stimo attraversando pensare alla grandezza di questi progetti. Rileggere i pensieri e le azioni di questi uomini di fede diventa un esercizio utile per cogliere cosa possiamo fare noi oggi, in una politica immiserita da litigare perfino sui poveri per costruire un consenso labile. Dobbiamo coltivare una qualche forma di nostalgia verso Paolo VI, per tenere sempre presente che se siamo vocati alla politica, dobbiamo anzitutto 'pensare' per mettere a fuoco il compito storico e poi avere il coraggio dell’impegno concreto. Senza stancarci di cercare relazioni, collegamenti e coraggiose aperture per tessere con prudenza e con metodo la trama di una civitas più umana.

* Presidente Acli

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