Per non arrendersi all'«ingiustizia»
martedì 24 luglio 2018

Quando un uomo come Sergio Marchionne scompare di colpo dalla scena dei media, e, in un silenzio costernato, da un ospedale non filtra nulla, se non un definitivo «non tornerà più a lavorare», il primo pensiero è lo sbalordimento. Sbalordimento per come la vita di ognuno, e anche dei più potenti, di quelli che sembrano avere il mondo nelle mani, sia in realtà legata al nostro povero corpo: a un cuore, a polmoni, a un cervello che possono in un attimo tradirci. La vita dell’ex ad di Fiat Chrysler non è in questo momento più solida di quella di un neonato venuto al mondo malato. E questo ricondurci della malattia e della morte a un minimo comune denominatore spiazza e ammutolisce soprattutto quanti, fra noi, vivono chiusi in un’orbita di pensieri solo mondani. Ammutolire infatti è ciò che è successo a molti, in Italia e nel mondo, sabato, leggendo della improvvisa 'malattia' di Marchionne.

Nella prima reazione del presidente di Fiat Chrysler John Elkann si legge invece, oltre al dolore, la sfumatura appena accennata di una diversa reazione. Elkann di Marchionne è grande amico, legato a lui da un affetto forse filiale. E in un comunicato, sabato, scrive: «Sono profondamente addolorato per le condizioni di Sergio. Si tratta di una situazione impensabile fino a poche ore fa, che lascia a tutti quanti un senso di ingiustizia». Per Elkann, Marchionne oltre che un amico è un manager di altissimo livello che ha salvato e rivoluzionato la Fiat, un’azienda che nel 2004, al suo arrivo, era in gravi difficoltà e oggi, moltiplicato il fatturato, dà lavoro a 236 mila dipendenti in tutto il mondo. È un collaboratore fino a pochi giorni fa in buona salute, che poteva dare ancora molto. Come può essere dunque che, in un giorno, tutto questo sia annientato? Un «senso di ingiustizia», dice il presidente di Fca, con parole irrituali per un comunicato aziendale, e però molto sincere. Quasi che quel senso di ingiustizia fosse così forte da traboccare fra le righe. E non lo conosciamo anche noi, quel sapore bruciante, quando muore un ragazzo, o una madre di bambini piccoli, o magari l’amico forte e generoso cui in tanti fanno riferimento? Non è che i cristiani, abituati a dire tutti i giorni «sia fatta la tua volontà», non provino istintivamente quel senso, davanti a una morte acerba, di rivolta: 'Non è giusto'. (E quanto, poi, se il colpo inferto ci ferisce proprio nella nostra carne, in un fratello, o peggio ancora in un figlio).

Nell’espressione sfuggita al presidente di una grande multinazionale, la stessa incredula amarezza di tanta gente semplice, di fronte alla sfida della perdita. «Ingiustizia». E, umanamente parlando, la malattia e la morte non appaiono forse un’ingiustizia? Un uomo nasce, viene cresciuto con amore e fatica, studia, lavora, si rende utile e magari prezioso, ha famiglia, in tanti contano su di lui, e in un istante il referto di una Tac cade come un colpo di falce. Un sentimento di ingiustizia può toccare facilmente anche chi crede. Ma, poi, col tempo, se non ci si chiude nel proprio dolore come in una roccaforte, se non si alimenta come una pianta il rancore verso il proprio destino, qualcosa di diverso può succedere. Può farsi strada una tacita ma vigorosa certezza: non è nel nulla, quella vita perduta. Non può finire nel nulla ciò che è di amore, fatica, passione la vita di un uomo. Non è così: ci si rivedrà. È una certezza che nasce proprio dalla forza del dolore, perfino quando – magari per la prima volta dopo anni – si cerca il conforto di un Dio dimenticato. Di un Dio sbiadito in parole che un tempo non ci erano comprensibili, e ora acquistano una nuova concretezza. La fanciulla di Nain, e Lazzaro, forse una volta per noi erano astrazioni, e ora sono vita, e speranza. Forse bisogna avere sofferto la lacerazione di un lutto, per intuire cos’è, la notte del Sabato, e quanto luminosa l’alba di Pasqua. È un aut aut: o si coltiva quell’umano, viscerale senso di ingiustizia, o ci si arrende a un Mistero che non possiamo misurare o giudicare o possedere. Non è una resa da sconfitti, però: è come un tornare in sé – tornare uomini davvero, e quindi figli. Nella certezza che la vita non è un maledetto caso, ma che siamo amati, uno per uno: e che, dunque, ci si rivedrà.

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