Taiwan, la storia e l'assurda escalation: per fermare la tempesta
giovedì 4 agosto 2022

Taiwan è oggi al centro di una gravissima crisi internazionale. Immotivatamente. Quest’isola con circa ventidue milioni di abitanti non offre infatti una ragione valida per uno scontro - dagli sbocchi imprevedibili - tra le due maggiori potenze del mondo. La crisi di Taiwan è la dimostrazione dell’assurdità cui è arrivata la situazione internazionale, non solo uscita fuori da ogni controllo ma anche da ogni logica.

Taiwan è da tempo considerata un pezzo di Cina. L’isola che i portoghesi chiamarono Bella – di qui il nome di Formosa – non appartiene al nucleo storico dell’antica Cina, ma comunque è entrata a far parte dell’Impero cinese già nel XVII secolo, ben prima ad esempio dell’Unità d’Italia. Anche la Repubblica di Cina (1912) e la Repubblica popolare cinese (1949) l’hanno considerata parte integrante del loro territorio.

Nessuno oggi mette apertamente in discussione la sovranità cinese su Taiwan: il conflitto si gioca sul terreno di un’ambiguità favorita dalle complicate vicende del dopo 1949. In quell’anno, infatti, sconfitti da Mao i nazionalisti di Chang Kai Shek – il Guomindang – si sono rifugiati a Taiwan, facendone l’ultimo residuo della Repubblica di Cina in alternativa alla Repubblica popolare cinese.

La forza del governo nazionalista è stata legata per anni al suo riconoscimento come unico governo cinese legittimo da parte di molti Stati occidentali (senza peraltro che ciò mettesse mai in discussione la "cinesità" di Taiwan: sbarcando sull’isola, infatti, proprio i nazionalisti hanno implicitamente riaffermato non la sovranità della popolazione autoctona ma di quella cinese, sperando di tornare prima o poi a comandare a Pechino).

Negli anni Settanta del secolo scorso tutto è improvvisamente cambiato: il seggio al Consiglio di Sicurezza dell’Onu è stato tolto a Taipei per darlo a Pechino e contemporaneamente moltissimi Stati – compresi quelli occidentali – hanno stabilito relazioni diplomatiche con Pechino interrompendole con Taipei. Da allora la situazione è rimasta sospesa: a livello internazionale si è riconosciuto che esiste una sola Cina – è la One China policy – mentre di fatto Taiwan ha continuato ad avere un governo autonomo.

È stata una buona soluzione: Pechino si è sentita rassicurata dal riconoscimento internazionale della sua sovranità sull’ isola, senza sentire un bisogno urgente di impadronirsene militarmente. La validità di tale status quo è stata ribadita anche da Biden nel recentissimo incontro on line con Xi Jinping e oggi capiamo perché il presidente americano abbia voluto a tutti i costi tale incontro anche se ammalato di Covid: per impedire che la visita di Nancy Pelosi diventasse un incidente esplosivo.

Negli ultimi anni, infatti, qualcosa è cambiato. Pechino ha mostrato maggior fretta di far corrispondere i fatti ai princìpi mentre dagli Stati Uniti sono venute spinte a sostenere un’inedita indipendenza di Taiwan in nome della democrazia (è da notare peraltro che gli abitanti dell’isola – sia cinesi sia autoctoni – non hanno mai rivendicato tale indipendenza). Per la Repubblica popolare cinese accettare di perdere un pezzo del suo territorio per l’imposizione di altri Stati sarebbe come accettare un inizio di smembramento e, in prospettiva, persino la possibilità di smettere di esistere come Stato sovrano. A pesare molto sono i precedenti del Novecento, quando i Giapponesi prima affermarono che la Cina non era un vero Stato e poi si presero la Manciuria, Taiwan e molto altro, smembrando – appunto – la Cina. Di qui la suscettibilità cinese e un’escalation che nessuno sembra voler o poter fermare.

Continuare a riconoscere il principio della sovranità cinese su Taiwan è invece ancora il modo migliore per evitare che Pechino senta il bisogno di affermarla nei fatti con un’azione militare. E anche per fare i veri interessi degli abitanti di Taiwan che si sono così tenuti finora un sistema politico a loro più gradito.

La visita di Nancy Pelosi è andata nella direzione opposta, rischiando di trasformare le tensioni in scontro aperto. Si è inserita infatti in una situazione internazionale molto tesa a causa della guerra in Ucraina. Gli occidentali si sono opposti all’aggressione russa all’Ucraina sostenendo la sovranità di quest’ultima, atteggiamento che ha incontrato un certo consenso cinese proprio per via di Taiwan.

Ma le schermaglie americane intorno all’Isola Bella sembrano contraddire tale linea e rafforzano la narrazione putiniana secondo cui l’Ucraina è parte della Russia e sono gli occidentali a non rispettare le sovranità. Malgrado il parallelismo tra le due situazioni sia del tutto infondato, agitando la questione di Taiwan si spinge Pechino sulle posizioni di Putin. Sembra di essere tornati alla Guerra di Corea dei primi anni Cinquanta del secolo scorso: oggi come allora c’è bisogno di qualcuno che fermi l’escalation verso la Terza guerra mondiale.

Nel 1951 fu il presidente americano Truman a fermare il generale Mc Arthur che voleva usare la bomba nucleare contro i nord-coreani sostenuti da cinesi e sovietici. Oggi Biden non sembra volere una Terza guerra mondiale. Ma avrà la forza per fermare chi, consapevolmente o inconsapevolmente, spinge in questa direzione?

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