sabato 21 gennaio 2012
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​Dopo cinquanta giorni di sciopero della fame è morto ieri a Santiago di Cuba il dissidente Willar Vilma, membro del gruppo Unión Patriótica Cubana, arrestato lo scorso novembre e condannato a quattro anni di reclusione per il rifiuto di rinnegare il movimento. La sua è una storia di ordinaria disperazione, quella di un povero diavolo (un «delinquente comune», secondo il regime) costretto dalla povertà più che dall’ideologia a entrare nel movimento di protesta dalla porta di servizio, lontano dai pur pochi riflettori concessi ai dissidenti di maggiore notorietà e del calibro di Guillermo Farinas od Orlando Zapata Tamajo, morto dopo 85 giorni di digiuno due anni fa, e tuttavia a essi legato dalla medesima sorte. Ma la triste fine del trentunenne Vilma – ultimo anello di una catena che tante volte (ma non tutte, purtroppo) la mediazione della Chiesa cattolica è riuscita a rendere meno spietata – non rappresenta altro che l’ennesimo atto di accusa nei confronti del regime cubano, delle sue ripugnanti cosmesi sociali, del sanguinario teatro d’ombre che costruisce attorno a simulacri di libertà, di liberalizzazioni, di modernità allo scopo di sfuggire alla propria fine inesorabile.Il tempo sembra essersi fermato a Cuba da quel 1° agosto 2006, quando Fidel Castro – la cui malattia pareva doverlo condurre di lì a poco alla morte – cedette i poteri al fratello Raúl. Un tempo immobile, sinistramente profetizzato quasi quarant’anni fa da Gabriel García Márquez nel romanzo L’autunno del patriarca, in cui il ritratto della corrotta solitudine del potere in agonia, dell’arbitrio capriccioso, della mistificazione e della farsa grottesca di una democrazia che non esiste e non esisterà mai si attaglia perfettamente alla Cuba di oggi, dominata da due fratelli pluriottantenni il cui solo cruccio sembra essere la conservazione del proprio potere nell’estenuato crepuscolo che la vita ancora concede loro.Sotto questo manto di piombo la isla de la felicidad, la sucursal del cielo – così si canta e si dipinge la bella e orgogliosa l’isola caraibica – rimane quello che è purtroppo sempre stata: un grande carcere a cielo aperto, dove tutto è vietato e nulla è permesso, dove crollano le case fatiscenti che il socialismo reale non ha provveduto a mettere in sicurezza e anche il navigare su internet è limitato dall’occhiuta sorveglianza satellitare donata a Castro dalla Cina, dove in ossequio a una sghemba frenesia di modernizzazione si schiudono le porte ai matrimoni gay ma si aprono regolarmente anche quelle delle carceri, ora per rilasciare duemila detenuti dissidenti (in onore della visita papale di marzo, si ama dire), ora per ospitarne altre decine, ma solo per pochi giorni, tanto perché sappiano che il regime è severo ma umano, talmente umano da serrare le frontiere per scongiurare il pericolo che i cubani fuggano all’estero e i gringos malvagi, gli yanqui (ossia gli americani) tornino a far man bassa delle ricchezze di un’isola che si colloca fra i Paesi più poveri del mondo.«Esta noche no hay quien pueda dormir» (stanotte non si potrà dormire), scrive Yoani Sanchez, la "blogger" il cui sito Generación Y è fumo negli occhi per il regime e che i cubani non hanno il diritto di visitare. Un regime che a dispetto delle illusioni che si erano create all’epoca del ritiro di Fidel Castro dalle cariche politiche non ha affatto cambiato pelle e soprattutto non sta preparandosi al futuro: della giovane classe dirigente che avrebbe potuto gestire la transizione verso la democrazia non è rimasto nessuno in grado di prendere le redini del Paese. Ma quanti ancora dovranno morire nelle carceri cubane prima che sul fatiscente spettacolo della decomposizione di un regime scenda provvidenziale il sipario della Storia?
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