Napoli e l'«egemonia dei delinquenti»
martedì 30 gennaio 2018

«A Napoli e in Campania l’egemonia culturale non è nelle mani dei galantuomini ma dei delinquenti». Parole forti, scandite dal procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, nel discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario. Parole che hanno scosso la città e infastidito più di qualcuno, a cominciare dal sindaco Luigi De Magistris. Che Napoli sopporti un’«emergenza» che dura da troppi anni per essere ancora tale, è sotto gli occhi di tutti. Sono passate solo due settimane dall’ultimo vertice in prefettura con il ministro dell’Interno per dare una risposta ai tanti episodi di violenza da parte di minori su minori. Purtroppo, come spesso accade, dopo le riunioni, le risposte lasciano a desiderare. A Napoli arriveranno altri cento poliziotti. Cosa buona, anzi ottima; meglio ancora se ne arrivassero il doppio, il triplo, ma, nessun si illuda, da sola non cambierà la situazione nemmeno di una virgola.

Lo sanno tutti, Napoli è una signora bella e malata. Una matrona che passa dai fasti alla miseria, dalla fame allo spreco. Una nobile un tantino squilibrata, elegantissima dalla vita in su ma con la gonna sudicia e le scarpe scalcagnate ai piedi. Napoli non ha saputo, e ancora non sa, fare pace con se stessa; non sa creare armonia tra la sua gente. La Napoli dei quartieri alti teme e si tiene a distanza dalla Napoli dei vicoli stretti e umidi. I napoletani colti e ricchi tendono a difendersi dai napoletani dei bassi. A Napoli si tocca con mano la situazione che descriveva pochi giorni fa Walter Ricciardi per quanto riguarda la sanità italiana: buona al nord, pessima al sud. Due mondi che hanno bisogno di riconciliazione se vogliono continuare a chiamarsi Italia. E anche Napoli, città (e mondo) ridotta a una sorta di Giano bifronte: due volti che (non) si guardano in cagnesco, si evitano, si sfidano.

Non so se sia vero, da parte mia non credo, che l’«egemonia culturale» sia dei delinquenti. C’è chi resiste, eccome. E c’è chi, penso anche e soprattutto alla Chiesa di Napoli, è riuscito a trovare anche in questa stagione amara parole e gesti per dire e fare buona la vita di tutti. Ma so anche che una risposta necessaria spetta alla classe dotta e a quella politica, ai professionisti di questa città, che per cultura, arte, musica, fede non è seconda a nessuna altra. Spetta agli studenti, ai lavoratori, al mondo del volontariato, dello sport, a tutti coloro – a cominciare dalle parrocchie – che operano sul territorio. Spetta alle persone di buona volontà. E purtroppo devo annotare che alla signora dai natali illustri e dalle tasche vuote mai è stata prescritta una terapia efficace per prendere di petto il morbo che la affossa.

Ottime diagnosi si sono accavallate nel tempo, ma sempre seguite da cure inefficaci. Tanti luminari illustri chiamati al suo capezzale per un consulto, ma al momento di bonificare la piaga infetta, di amputare la parte consunta dalla cancrena e iniziare la riabilitazione, qualcosa si inceppava e ancora si inceppa. Il problema è qui. È nel dare seguito alle parole. È passare ai fatti. Concreti. Reali. Tosti. È capire che la forze dell’ordine, l’esercito, i giubbotti anti-proiettili da soli non potranno mai bastare. È comprendere una volta per tutte che i ragazzi dei quartieri poveri, quelli cosiddetti a rischio, partono non con una, ma con cento marce in meno. Sempre svantaggiati, continuamente indietro. È rendersi conto dal fatto che quando un uomo sta affogando è inutile – se non dannoso – tenergli una lezione di nuoto; occorre lanciargli un salvagente o avere il coraggio di tuffarsi in mare per tirarlo su. Perché quanto più si agita tanto più affonda.

C’è bisogno di una mano che venga dall’ esterno. Una mano forte, certa, sicura. Una mano esperta. In amore, giustizia, onestà, vicinanza, innanzitutto. Perché a Napoli tanta, troppa gente si è arricchita sulla pelle dei poveri. Tanta gente campa sui problemi dei poveri. E i poveri sono arrabbiati e i loro figli lo sono ancora di più. E vanno per conto proprio, sfidando il mondo intero.
Una domanda mi martella in testa fino a farmi male: e se la violenza fosse l’ultimo grido di aiuto di questi adolescenti violenti verso una società che li tiene ai margini? Come quando il bambino piange per dire: ci sono anch’io?

Non ci dice niente il fatto che hanno messo in conto anche il carcere e il camposanto? Se gli ospedali napoletani rispetto a quelli toscani, veneti, lombardi fanno pena, la colpa non è dei delinquenti, ma di una classe politica corrotta e collusa che non ha saputo fare il suo mestiere. Se la camorra ha potuto radicarsi sul territorio fino a diventare 'normale', le cause vanno cercate altrove. Se nella lunga lista degli ultimi arrestati del clan Moccia di Afragola, compaiono i nomi di due poliziotti, occorre ammettere che siamo di fronte a qualcosa di orribilmente grave. Se un giovane onesto, dopo aver cercato per mesi un lavoro che non è riuscito a scovare da nessuna parte, per potersi sposare ha deciso di bussare all’ unica industria che funziona sul suo territorio, la camorra, qualche domanda le istituzioni se la debbono porre.

È quello il punto debole della catena. Se il signor procuratore dopo aver pensato e pesato le parole e ben sapendo di suscitare un vespaio si è espresso in quel modo, vuol dire che è giunto il tempo di fermarsi, guardarsi negli occhi e chiedersi seriamente se conviene continuare a bistrattare, isolare, ignorare i figli dei poveri dei quartieri poveri sapendo che prima o poi cadranno in pasto alla camorra maledetta o non sia giunto il momento di dire tutti insieme basta. Un giovane sano che per disperazione si consegna alla malavita organizzata è il fallimento della città, della politica, della democrazia. È il fallimento di tutti. Se non si strappa la 'manodopera spicciola' dalle mani della camorra è pura utopia pensare di poterle suonare le campane a morto.

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