mercoledì 19 giugno 2013
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​Ogni volta che esplode sulla cronaca una nuova condanna a morte in America, e che ci muoviamo per salvare il condannato, ci fanno due obiezioni: 1) il governatore non vi ascolterà, 2) l’assassino tornerà a uccidere. Oggi queste obiezioni vengono smentite entrambe. Una condannata a morte quando aveva 16 anni, graziata soprattutto per l’intervento del Papa, oggi ha 43 anni ed è libera, e sta imparando il mestiere di cuoca, perché dice che mangiare bene rallegra le persone e le stacca dal fare male. Ha commesso un orrendo delitto quand’era bambina, doveva morire sulla sedia elettrica. La sua sorte dipendeva dal governatore dell’Indiana. L’appello di Giovanni Paolo II ebbe enorme rilievo sulla stampa americana. E grande efficacia sul governatore. La pena di morte per Paula Cooper fu commutata in 60 anni di carcere, ma il sistema giudiziario dell’Indiana condona un anno per ogni anno trascorso in buona condotta. Morale: oggi Paula è libera. Cos’aveva fatto? Insieme con due amiche, aveva crudelmente ucciso una anziana maestra di catechismo, nel 1985. Paula viveva in un ambiente amorale e violento, era una bambina, non sapeva sottrarsi ai condizionamenti feroci che riceveva, e uccidendo li mise in pratica. La sentenza fu come doveva essere, dato il Diritto vigente nello Stato. A chi andava a trovarla, Paula parlava del «rischio di pazzia». Diceva che ha corso questo rischio quand’era bambina, e forse non ha soltanto rischiato di diventare pazza, ma lo è diventata davvero, perché non si spiega altrimenti quel che ha fatto. Lei e le sue amiche erano fuori di testa, non erano loro che sfogavano la voglia di morte, era il mondo in cui vivevano, dove o sei crudele o sei morto. Dice ancora Paula che ha rischiato la pazzia nel carcere, prima in attesa della sedia elettrica e poi in attesa del fine pena. Dal modo in cui racconta come pre-sentiva la pazzia quando attendeva la sedia elettrica, si deduce che ciò che le dava disperazione era che, dopo l’esecuzione, nessuno si sarebbe ricordato di lei. Lei era un "nulla omicida", e sarebbe diventata un "nulla giustiziato". Quel "nulla" significava che non valeva niente per nessuno, né per i poliziotti che la catturarono né per i giudici che la condannarono né per i secondini che la sorvegliavano. Non contare niente significa non essere niente. Sentirsi un essere umano e accorgersi che per gli altri non esisti ti rabbuia il cervello. Lo choc che la rimise in piedi fu l’apprendere che il Papa si era mosso per lei. Capì che lei valeva qualcosa per qualcuno, e poiché a muoversi poi furono molti, lei valeva qualcosa per molti. Noi, uomini liberi, non possiamo capire l’urto che produce nel cervello dei condannati senza scampo, o dei prigionieri senza prospettiva di liberazione, l’apprendere di colpo, da un giornale o da una radiolina, che qualcuno che è ascoltato parla di te, per te, ti vuole aiutare. Scrivo queste parole e mi vedo davanti la faccia sorridente di Ingrid Betancourt, militante dei Diritti Umani, sequestrata dai guerriglieri delle Farc in Colombia, e tenuta prigioniera nel fondo della giungla, dove nessuno mai avrebbe potuto scoprirla, quando un giorno sentì a una radiolina la voce del Papa che chiedeva la sua liberazione. Ingrid ci spiegò, appena tornò fra noi (fu prigioniera dal 2002 al 2008) lo sblocco del suo cervello, sentendo il proprio nome pronunciato da un’autorità mondiale risuonare nel buio della foresta. Pensò: «Ma allora non sono dimenticata!». È la scoperta che ti salva. Come una corda calata nel pozzo dentro il quale sei precipitato. Ti aggrappi e risali in superficie. Lo stesso per Paula. Sentendo che per qualcuno tu sei qualcosa, ti rivaluti da te stesso. Ti apprezzi. E cerchi di migliorati. Fu dopo aver appreso che Giovanni Paolo II chiedeva la grazia, che Paula si mise a studiare e diventò prima infermiera, poi anche cuoca. Adesso sta per uscire. Il figlio della vittima si dichiara contento che sia viva e sia libera. Che cosa avremmo di più e di meglio, se fosse stata uccisa? Non potremmo tenerlo a mente, per la prossima volta?
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