Gentile direttore,
la ratifica della Convenzione di Faro – approvata di recente dal Parlamento italiano, e di cui su 'Avvenire' ha ben scritto Irene Baldriga – stimola un’approfondita riflessione su ciò che definiamo «patrimonio culturale », innanzitutto perché le parole ogni tanto esigono un check-up che ne esamini l’efficacia e rappresentatività nel tempo, e poi perché con quel termine si indicano realtà molto eterogenee, materiali e immateriali. Infatti appare sempre più chiaro quanto sia insufficiente la definizione di «patrimonio». Come possiamo approcciare e gestire con la stessa modalità un dipinto del ’600, una cascata d’acqua, una poesia? Possiamo, invece, tentare di spiegarci che relazione culturale esista tra esperienze così diverse, e ripensare a un’idea di patrimonio.
È evidente che tutelare realtà così differenti, e promuoverne la conoscenza, sia estremamente complesso, e richieda metodologie separate e talvolta persino confliggenti. Ma la questione si complica, laddove ci si accorga che in questa eterogeneità manchi totalmente l’esperienza immateriale: infatti nella percezione comune la musica e il teatro sono declassate alla definizione «spettacolo dal vivo». Una convinzione dalle radici lontane: basti pensare alla filosofia crociana che relega l’esperienza musicale a un ruolo culturalmente ininfluente. Questa mentalità ben radicata nell’intellighenzia del nostro Paese, paradossalmente confligge con la realtà della sua storia: senza il teatro musicale il nostro ’800 sarebbe ben povero di altri avvenimenti culturali di spessore, mentre proprio sul melodramma questa nazione ha fondato gran parte della sua identità, salvo affrettarsi a negarla subito dopo, com’è tipico costume locale.
Non solo. La storia del melodramma italiano ha prodotto un altro tipo di patrimonio culturale: il complesso sistema di pratiche e abilità che sono il fondamento dell’arte del canto lirico all’italiana. Questo raffinatissimo artigianato è un bene che andrebbe tutelato, protetto e divulgato per non rischiare che venga sgretolato dagli eventi. Il melodramma italiano e le sue tecniche esecutive hanno, a mio parere, nel nostro Dna culturale un ruolo molto più forte e radicato di altre espressioni artistiche, e sarebbe giunto il momento di riconoscere all’esperienza metafisica (in senso lato e laico) il medesimo valore artistico e culturale di un dipinto. Esser consapevoli delle basi culturali sulle quali appoggia la nostra contemporanea percezione dell’arte, non è un dato secondario. In tal senso, l’auspicato riconoscimento da parte dell’Unesco del Canto lirico all’italiana quale 'patrimonio culturale immateriale dell’umanità' alla cui candidatura lavorano da anni associazioni come Cpi (cantori professionisti italiani) e Assolirica (l’associazione di categoria degli artisti lirici) rappresenta un fatto fondamentale, non solo per la tutela di un sapere depositato nella nostra storia, e di un genere che ha fatto il giro del mondo, gettando le basi per la declinazione futura dello spettacolo dal vivo in tutte le sue differenti espressioni. Ma anche perché legittima l’incontestabile importanza, nel nostro patrimonio culturale, dell’esperienza del teatro in musica. Chissà che la musica e il teatro non riescano così a conquistare quel ruolo che dovrebbero avere anche nell’offerta formativa del nostro sistema educativo, dove sono storicamente latitanti, creando una lacuna imperdonabile nella formazione della conoscenza e dello sviluppo culturale di un popolo.
Ecco quindi che dovremo esser capaci di spiegare che relazione c’è tra un quartetto d’archi e una chiesa barocca, o tra una rappresentazione scultorea e una scena d’opera. E sarebbe ora di farlo, invece di accogliere nella definizione di Arte e Cultura solo ciò che ha un mercato florido: che è un dato fondamentale, ma che non esaurisce la realtà. La visione del mondo che ci spinge a considerare reale solo ciò che possiamo toccare, e quindi possedere e consumare non sembra aver prodotto dei risultati entusiasmanti. È tempo di aggiornarla.
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