lunedì 16 giugno 2014
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​C’è una torva modernità, una sorta di accecante futurismo in salsa mesopotamica nella riproposizione – a millequattrocento anni di distanza dallo scisma fra sciiti e sunniti – di questo ineffabile Califfato di Ninive, a opera dei jihadisti che militano nell’Isis, lo Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che dopo aver conquistato Mosul, Tikrit, Fallujah muovono ora su Baghdad al grido di Baqiya wa tatamaddad, ovvero, «Restare ed espandersi». Di fronte, per ora, hanno un pugno di pasdaran iraniani e alle spalle un esercito iracheno in rotta, male organizzato e drammaticamente impreparato a un confronto sul campo con una milizia forgiata da un fanatismo inesorabile e dall’assenza pressoché assoluta della paura di morire. Un esercito composto non soltanto dagli eredi della vecchia al-Qaeda di Osama Benladen (ormai in aperto dissenso con i padri fondatori), ma anche – la cosa è più che certa – da residui del sepolto partito Baath, il ceto politico-militare su cui costruì la sua ascesa e il suo potere Saddam Hussein e che il governo dello sciita Nuri al-Maliki ha sconsideratamente tenuto ai margini della vita pubblica irachena, fomentandone così l’ansia di rivincita.Chi ancora s’illudeva che le guerre di Bush padre e figlio avessero risistemato per i decenni a venire la carta geografica del Grande Medio Oriente si è trovato da tempo a doversi ricredere: i ribollenti calderoni libici, egiziani e nigeriani, il fiume di sotterranea sedizione che unisce il Mali al Corno d’Africa, il Sinai allo Yemen, il Sudan alla Somalia, il frantumarsi dell’unità territoriale in Siria e in Iraq in una caotico Big Bang all’insegna del jihadismo arrembante erano e sono spie del un profondo mutamento – non solo politico, ma culturale, quasi genetico che scuote la Mezzaluna Fertile come scuote il Maghreb, l’Africa subsahariana e la penisola arabica. Sullo sfondo c’è lo scontro mortale e millenario fra sciiti e sunniti, fra Teheran e Damasco con i loro alleati Hezbollah in Libano da una parte, e dall’altra il vasto e maggioritario arcipelago sunnita egemonizzato dall’ortodossia wahhabita di Riad. Ma la disputa religiosa non esaurisce tutte le risposte.Dietro all’inconciliabile screzio fra i "discendenti del Profeta" si muovono strategie e ambizioni regionali perseguite con quel medesimo sottile cinismo che nella Prussia di Otto von Bismarck si cominciò a chiamare Realpolitik e che nel Medio Oriente è da molto prima pane quotidiano: non per nulla l’Arabia Saudita è il grande e insieme occulto finanziatore di molti jihadismi, pronta a sconfessarli quando occorre e a cambiare rotta quando serve, così come la stessa Turchia, altro importante player della regione, alterna un’impensata simpatia nei confronti dei curdi iracheni a una strizzata d’occhi ai baathisti sopravvissuti all’era di Saddam. E se qualcuno nutre ancora dei dubbi sul fatto che su questo scacchiere si giochino partite ben più prosaiche (e remunerative) delle dispute religiose, si ricordi che il caos in Medio Oriente ha sempre l’effetto immediato di alzare i prezzi del greggio, negli ultimi giorni schizzato ai massimi valori da nove mesi a questa parte. Come dire, oro nelle tasche degli emiri e dei grandi satrapi del Golfo, ma anche – va detto – per i signori dei pozzi iracheni di Kirkuk. Le responsabilità del disastro umanitario che si profila in Iraq e del rischio concreto di un nuovo conflitto su vasta scala sarebbero lunghe da elencare. Si va dall’inettitudine del governo Maliki (che ha compiuto gli stessi errori di Mohammed Morsi in Egitto emarginando gli sconfitti invece di cercare una pacificazione civile) alla macroscopica impreparazione dell’esercito regolare di Baghdad, addestrato a risolvere problemi di ordine pubblico e assolutamente inadeguato a una guerra sul campo. Né va sottovalutato quel gesto solo apparentemente anacronistico dello Stato islamico dell’Iraq e del Levante, che proclama la nascita di un califfato. Perché questa, agli occhi di chi sa intenderla (e a intenderla per prime sono le moltitudini di diseredati che popolano le cento contrade dell’islam sunnita, orecchie disperate e sensibilissime), è la cellula primigenia di un antico sogno che si rinnova, quello di uno Stato islamico senza frontiere, che oltrepassa i confini nazionali e si fa arcipelago, continente, Baqiya wa tatamaddad, sharia, Stato e religione insieme, cancellando nel sangue le assurde righe dritte tracciate sulla carta da francesi e inglesi all’indomani del collasso dell’impero ottomano, improbabili confini immateriali sagomati nella sabbia del deserto. Una suggestione che sicuramente modellerà altre suggestioni, altre insurrezioni, altri califfati. È soltanto questione di tempo.Ma attenzione: il Califfato nascente ha già prodotto il suo impensato anticorpo, la sua bizzarra Santa Alleanza: mai come ora Teheran e Washington si sono parlate, mai come ora sono vicine a un accordo sul nucleare, ma anche a qualcosa che assomiglia a un’azione militare comune: i pasdaran iraniani e i droni americani insieme, roba da non credere, il Grande Satana (come Khomeini chiamava l’America) a braccetto con i martiri della rivoluzione. Obbiettivo comune e condiviso, spegnere il fuoco del califfato prima che l’incendio dilaghi e bruci la carta geografica dal Marocco all’Afghanistan. Campi petroliferi compresi.
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