lunedì 4 febbraio 2013
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Scarsa attenzione ai temi dell’università e della ricerca, assenza di sensibilità per cultura e scienza. L’accusa è fin troppo facile nei confronti dei partiti che si presentano ai cittadini per il voto del 24 e 25 febbraio. I soldi non ci sono, con la cultura non si mangia, l’università produce disoccupati mentre mancano operai specializzati e artigiani, ripetono i politici. Che poi infieriscono senza pietà. Il Fondo di finanziamento ordinario all’università è sceso di più di un miliardo dal 2008 a oggi, con una serie di tagli programmati. I fondi per i Prin (Progetti di ricerca di interesse nazionale) sono diminuiti da 85 milioni (2011) a 38, mentre i Firb (destinati ai giovani) sono calati da 50 milioni a 29. Considerando che il Pil è in discesa al massimo di un paio di punti percentuali, sull’università si abbatte una mannaia ingiustificata, mentre altri Paesi si avvantaggiano in termini di crescita economica e civile dai massicci investimenti in cultura (non a caso siamo al 34° posto su 36 nell’Ocse per percentuale di laureati). Una piccola e provocatoria proposta ci sentiamo allora di lanciarla.

Senza cadere nel facile populismo di chi, dopo ogni scandalo, invoca tagli indiscriminati sia del numero degli eletti sia dei loro compensi, forse è possibile spendere meglio una parte di quei fondi destinati alla rappresentanza democratica. Si consideri il fatto che i 945 parlamentari eletti, oltre alla più che dignitosa indennità mensile, ricevono anche un «rimborso delle spese per l’esercizio del mandato» pari a 3.690 euro per i deputati e 4.100 euro per i senatori. Secondo le regole della Camera, metà della cifra è versata forfettariamente senza giustificativi, l’altro 50% «a titolo di rimborso per specifiche categorie di spese che devono essere documentate: collaboratori; consulenze, ricerche; gestione dell’ufficio; utilizzo di reti pubbliche di consultazione di dati; convegni». In altre parole, si tratta di un contributo volto a fare sì che il parlamentare possa informarsi, aggiornarsi e approfondire le proprie conoscenze per partecipare o dare avvio con cognizione di causa al processo legislativo, compito delicato e complesso dalle ricadute generali, di cui è evidente l’impossibilità di sopravvalutare l’importanza. È altresì noto che in moltissimi casi i "collaboratori" sono in realtà "portaborse", volenterosi assistenti dal ruolo più di promozione del consenso che di esperti, spesso poco pagati e senza contratto formale, come hanno documentato varie inchieste giornalistiche, oppure parenti e amici reclutati per fare una cosa "in famiglia". Perché allora ciascun parlamentare non destina 1.346 euro il mese per pagare la borsa di un giovane dottorando (chi dopo un esame di ammissione intraprende un percorso di formazione e studio post-laurea, primo gradino della carriera accademica) ricevendone in contraccambio consulenza scientifica per la propria attività. Per deputati e senatori – con solo un quarto del proprio rimborso – significherebbe potere contare su una documentazione rigorosa per le materie di interesse. Per 945 giovani studiosi costituirebbe la possibilità di avere un reddito assicurato per 5 anni (due oltre il percorso del dottorato, che peraltro garantisce soltanto alla metà dei vincitori la borsa mensile di 1.346 euro lordi). Per gli atenei significherebbe sgravarsi di tali pagamenti con la possibilità di bandire più posti di dottorato o di destinare ad altri impieghi di ricerca la somma risparmiata. Certo, la preferenza andrà a dottorandi di aree politico-economiche-giuridiche, ma anche esperti di altre discipline sono necessari alla legislazione nazionale, che spazia dalla sanità all’agricoltura, dalla sicurezza sul lavoro agli scavi archeologici, solo per fare qualche esempio. Pur essendo una procedura volontaria, potrebbero esservi alcuni ostacoli formali, ad esempio quelli del regolamento stesso del dottorato. Ma sarebbe questa un’occasione in più per mostrare che flessibilità ed efficacia si possono mettere in campo per superare le strettoie burocratiche se è per una buona causa. Si innescherebbe forse una spirale virtuosa tra competenze rigorose immesse nel circuito della politica e ricerca scientifica. Cercando di evitare il rischio di "politicizzare" i giovani studiosi (la cui attività accademica non dovrebbe essere in alcun modo influenzata; i parlamentari avrebbero ancora le risorse per un "segretario" agli affari correnti), essi avrebbero anche l’opportunità – dedicando parte del proprio tempo ai dossier di base del processo legislativo – di fare apprezzare l’utilità di cultura e ricerca per il bene complessivo del Paese. Ecco allora l’impegno concreto (minimo) che un partito potrebbe assumere in campagna elettorale come segnale di attenzione alla ricerca, all’università e ai suoi futuri protagonisti.

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