Paesi senza più campanelle
martedì 12 settembre 2023

La crisi demografica che attraversa da anni il nostro Paese incide pesantemente anche sul mondo della scuola. Lo sappiamo da tempo, e le risposte finora non si sono rivelate adeguate. Non è soltanto una questione di statistica. Nei grandi centri urbani produce il paradosso delle classi sovraffollate, essendo più difficile ripartire gli studenti in modo adeguato. Gli effetti sulla didattica sono evidenti. Ma nei piccoli centri, nelle aree interne, la prospettiva è diversa ed è difficile da mettere a fuoco se lo sguardo – come ancora troppo spesso accade – parte dalle grandi città e dalle relative, ampie fasce periurbane.

Nelle quali, è vero, si concentra la maggior parte della popolazione italiana, dopo i grandi processi di urbanizzazione del secondo Novecento, ma dell’Italia le “metropoli” rappresentano territorialmente solo una parte. La nostra storia, la nostra cultura sono state forgiate da quel pulviscolo di piccoli centri e paesi che punteggiano il territorio. E che per secoli ne hanno costituito la ricchezza sociale, economica e culturale, ognuno con la sua identità. Ma che sono stati largamente trascurati dalle politiche nazionali: non è da molti anni che si è iniziato a parlare seriamente di aree interne e a ragionare concretamente su cosa fare per rivitalizzare il tessuto composito del nostro Paese.

La letteratura scientifica sta sviluppando un ampio e approfondito dibattito su questo tema. Sono numerose, per altro, le iniziative modello che hanno permesso di rilanciare alcune periferie d’Italia. Quello di cui si avverte ancora la mancanza è un’intersezione strutturale tra le esperienze concrete e gli studi sistematici. Con il rischio che anche i migliori e benintenzionati progetti destinati alle aree interne finiscano per piovere dall’alto su territori non adeguatamente compresi. In fondo, ci trasciniamo ancora l’impostazione amministrativa portata in Italia da Napoleone: omogeneità completa, identiche strutture per il paesino arroccato sui monti o su una remota isoletta e la capitale dello Stato.

L’organizzazione scolastica parte dal numero degli alunni e degli studenti: aule, distribuzione territoriale, esistenza stessa delle classi discendono, con pochissimi correttivi, da questi numeri stabiliti astrattamente. I piccoli paesi, quelli dove gli abitanti si contano a centinaia, al massimo poche migliaia, sono ancora uno dei luoghi in Italia dove la vita sociale è solida. Qui la scuola non riveste soltanto il pur importantissimo ruolo di struttura pedagogica: è una delle poche colonne portanti ancora esistenti della comunità, accanto alla parrocchia, alla farmacia, alla posta, al bar. Qui la scuola è solo quella dell’infanzia e primaria, e attorno a essa ruotano le vite di tutta la comunità. Qui, applicare i criteri numerico-organizzativi di Milano o Roma è esercizio di sterile equilibrismo.

Certo, moltissimi bravi dirigenti scolastici sono capaci di aggirare i paletti troppo rigidi, ma a tutto c’è un limite: a un certo punto, se i bambini del paese sono una manciata o poco più, arriva il momento in cui la scuola chiude. È un domino: la scuola chiusa porta le famiglie ad allontanarsi, magari a malincuore e in contrapposizione a quel desiderio di ritorno al paese che numerosi studi hanno evidenziato come una delle tendenze sociali più interessanti nell’Europa dell’ultimo decennio; l’allontanamento delle famiglie lascia nei paesi soltanto gli anziani, a loro volta con difficoltà crescenti proprio perché privati del sostegno – materiale, ma forse più ancora emotivo – delle nuove generazioni.

E il piccolissimo presidio urbano e sociale, inevitabilmente, muore. La chiusura delle piccole scuole delle aree interne è sempre il primo passo verso il loro spopolamento; senza di esse, non c’è politica attiva economico-sociale che tenga. Anziché un’Italia ricca fatta di città e anche di piccole comunità vive e concrete, rischiamo di ritrovarci un’Italia povera fatta di città e di un loro fondale costellato di aree abbandonate oppure di paesi svuotati della loro vita e ridotti a mera struttura storico-estetica: ridotto a “borgo”, secondo il lessico che inconsapevolmente finisce per forgiare anche le scelte politiche. I borghi hanno turisti, “esperienze”, “location”; ma se non hanno più scuole, oratori e osterie, non hanno più vita.

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