Organizzazioni della società civile: la nuova via per affrontare le crisi
sabato 20 aprile 2024

In un suo recente editoriale per “Avvenire”, Mauro Magatti si fa portavoce di una importante convocazione delle istituzioni europee. Egli avanza «la proposta di una conferenza straordinaria dei Capi di Stato e di governo dell’Unione europea sulle implicazioni politiche della crisi in corso», da convocarsi ad elezioni appena avvenute.

Secondo l’auspicio dell’autore, questo meeting, inedito come i tempi che viviamo, dovrebbe essere propulsivo di «linee comuni di una azione politica su cui il prossimo Parlamento e la prossima Commissione potranno poi effettivamente lavorare. All’interno di una cornice politica discussa e decisa insieme».

Mi permetto di riallacciarmi a questo “desiderio di indirizzo”, che condivido appieno, per sottolineare l’urgenza che i Paesi membri avviino da subito interlocuzioni con la società civile europea, ma anche con quella ucraina, moldava, serba, kosovara, armena, azera, e quindi con i corpi intermedi che resistono nei luoghi del conflitto, caldo o tiepido che sia.

Se c’è un dato da registrare in questi anni, in Ucraina ad esempio, è che il livello organizzativo e propositivo della società civile sta dando una prova di sé senza pari: dall’organizzazione degli aiuti alle evacuazioni, dalla scelta di non chiudere le scuole a quella di non far saltare il festival nazionale del libro a Kiev, questo maggio come quello scorso, dalla difesa dei musei alla promozione dei valori della libertà di espressione. Ed anche di fronte al tentativo di avviare una coscrizione per il fronte, è stata l’opinione pubblica ucraina, compatta per la resistenza, ad esprimere con forza il suo dissenso, piegando in parte la volontà del proprio indiscusso presidente. Ed è dall’Ucraina, da Majdan, che la società civile riunitasi nel Palazzo d’Ottobre, il 15 ottobre scorso, ha chiesto all’Unione Europea di avviare l’istituzione dei Corpi Civili di Pace, alla presenza di parlamentari ucraini, europei ed italiani.

Così come dobbiamo valorizzare tutto il grande lavoro svolto dalla società civile europea per la mediazione e la risoluzione creativa dei conflitti: quelle migliaia di esperienze censite come “buone prassi” dall’Unione stessa in cui gli europei hanno dimostrato di saper intervenire con efficacia in situazioni pericolose e difficili, come nelle banlieue francesi, nei quartieri periferici italiani, nelle aree rurali dimenticate ed arrabbiate, nelle nostre carceri di ogni latitudine, nei quartieri multietnici che da polveriere diventano esempi di buona convivenza.

C’è un “saper fare” europeo nei processi di negoziazione e di costruzione della pace che non è rappresentato dai governi eletti, non per una deficienza di questi ultimi, ma probabilmente per la condizione di politica liquida che è dietro ad ogni elezione. In Europa, i partiti non sono i principali corpi intermedi deputati alla negoziazione dei bisogni e alla ricerca delle risposte già da un bel po’, invero, mentre la galassia di quella che il Fondo Sociale Europeo chiama “Cso”, civil society organization, è andata crescendo ed ampliandosi in numero di iscritti, azioni e competenze.

In Italia, ad esempio, il rapporto è di quattro milioni di iscritti alle reti del Terzo Settore e meno di un milione di tesserati complessivi nei maggiori partiti. In questi anni le due reti sociali, i partiti da un lato e le “Cso” dall’altro, hanno viaggiato sempre distinte, addirittura con una sempre maggiore invalicabilità dei mondi: chi è pubblicamente impegnato in un partito non può avere ruoli nelle cso, e viceversa, ed è per questo che una convocazione degli Stati generali europei, in cui manchi la convocazione della società civile, rischia di assolvere alla metà di un compito rispetto all’ampiezza della crisi, non per cattiva volontà dei governi , ma perché essi rappresentano metà dell’Europa politica in movimento.

Gli accordi sottoscritti di Minsk 1 e Minsk 2 furono un risultato importante e furono il frutto di una mediazione tra i governi, il cosiddetto “formato Normandia” che coinvolgeva Russia, Ucraina, Francia e Germania e che affidava ad una istituzione autorevole, l’Ocse, l’osservazione sul rispetto degli accordi stessi. Oggi sappiamo tutti che, nonostante gli ottimi testi elaborati, gli accordi restarono carta straccia. Ciò che, invece, non sappiamo è che cosa sarebbe successo se alle negoziazioni avessero preso parte anche esponenti della società civile ucraina e russa e se organizzazioni della società civile europea avessero potuto avere un chiaro ruolo nel mantenimento della pace nell’est Ucraina. È il momento di osare e di chiedere di più, prima di tutto a noi stessi, a partire dalla cittadinanza attiva che non vuole restare in panchina.

© Riproduzione riservata
COMMENTA E CONDIVIDI

ARGOMENTI: