mercoledì 10 agosto 2011
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Il problema della "casta" – scrive Luciano Violante, uno cioè che sa benissimo di cosa parla – è, soprattutto, un problema morale, che va affrontato con gli strumenti giusti, che non possono essere ridotti a quelli (spuntati?) del codice penale. Violante propone che i due rami del Parlamento istituiscano «organi di valutazione dell’etica pubblica», che applichino a chi faccia politica, e senza guardare in faccia a nessuno, severi codici deontologici. L’ex-presidente della Camera non si illude che in tal modo si risolvano i gravissimi problemi di malcostume che affliggono la Seconda Repubblica, ma ritiene, non a torto, che questo potrebbe essere un segnale, potrebbe aiutare ad aprire una nuova strada e infondere un po’ di rinnovata fiducia nell’opinione pubblica verso la classe politica (e Dio solo se ne avvertiamo il bisogno!). La proposta è sacrosanta. Per essere credibile deve però poggiare almeno su due presupposti.Il primo presupposto è il ripudio di un logoro slogan laicista, quello della radicale distinzione tra diritto e morale. La distinzione, di origine giuspositivista, è stata spesso esemplificata, in modo infelice, attraverso la distinzione tra etica "privata" ed etica "pubblica", o tra "peccati" (privati e quindi pubblicamente insindacabili) e "reati" (pubblici e quindi da reprimere da parte della legge penale, indipendentemente dalla loro rilevanza etica). La distinzione, che pure ha una sua plausibilità, non regge quando viene assolutizzata in modo radicale, come amano fare i "relativisti". Esistono pratiche sociali, che il diritto penale non è in grado di controllare (ed è bene che non lo faccia) e che quindi non rientrano nel paradigma dei "reati", ma che alterano gravemente l’equilibrio sociale: sono tutte quelle pratiche che vengono poste in essere da coloro che non comprendono che il dovere di rispettare la dignità altrui viene prima della richiesta che sia rispettata la dignità propria e che sono convinti che la massimizzazione dei propri interessi può, senza rimorsi di alcun tipo, passare attraverso forme, pur legali, di disconoscimento degli interessi altrui.Il secondo presupposto è ancora più esigente. Lo citerò ricorrendo a una dura espressione di Ronald Dworkin (ricordata ed elogiata da Guido Rossi nel suo bell’editoriale del "Sole-24 Ore" dello scorso 7 agosto): bisogna senza esitare e senza stancarsi mai denunciare una delle più seducenti menzogne della modernità, quella che usa come criterio di misura della vita buona la ricchezza, il lusso e il potere (ancorché legalmente conquistati). Bisogna cioè superare l’individualismo etico che da anni dilaga nelle società occidentali e che costituisce il tarlo della secolarizzazione. La menzogna dell’individualismo non consiste nel proclamare legittimi gli interessi privati di coloro che adorano lusso, ricchezza e potere (il diritto esiste anche per garantirne la fruizione, ovviamente, nelle forme dovute), ma nel convincere subdolamente le persone a ritenere che attraverso la massimizzazione dei loro insindacabili interessi privati si possa, come per magia, costruire il bene comune e tenere insieme una società composta da «stranieri morali».Sono falsità di questo genere quelle che devono essere combattute da un’etica pubblica che sappia individuare il bene umano oggettivo e che si riveli in grado di gestire in modo limpido e sobrio quello spazio che esiste tra "peccati" e "reati", sottraendolo alle molteplici forme di malcostume collettivo che stanno inquinando la nostra società civile. Un organo per la deontologia dei parlamentari può senza dubbio portare un contributo in questo senso e aprire la pista per una nuova valorizzazione delle tante diverse dimensioni della deontologia (e in primo luogo delle diverse deontologie professionali) infelicemente marginalizzate negli ultimi decenni.
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