sabato 28 gennaio 2012
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Oggi, quarant’anni fa, moriva un nostro collega. È presuntuoso definire "collega" Dino Buzzati, una delle voci più geniali e libere della letteratura italiana e firma storica del Corriere della Sera, ma questo sarebbe stato il suo epitaffio, se avesse potuto scegliere: «Oggi è mancato un cronista». Quando un artista è indiscusso, si rischia di dimenticare l’uomo. Così Buzzati è celebrato come autore del Deserto dei Tartari o di Un amore, come maestro di giornalismo e scrittore di fama mondiale, ma prima di Buzzati c’era Dino, maestro di onestà e di modestia, l’uomo che, con in tasca il Premio Strega e sulle spalle l’invidia di un’intellighenzia che mal sopportava il suo successo svincolato da lobby e tessere di partito, la notte continuava – come un apprendista qualsiasi – a montare sulle "pantere" della polizia per fare il giro "della nera", e dalla cronaca di tutti i giorni attingeva ancora con occhi incantati al mistero della vita. «Era un doverista», lo descriveva Gaetano Afeltra, intendendo un uomo che, anche all’apice della carriera, restava fino all’ultimo in redazione, innamorato del mestiere e dell’odore d’inchiostro, impaurito di non aver magari fatto un buon lavoro. La sua umiltà, fondata su un’educazione autenticamente cristiana, aveva radici antiche, al punto che il giovane Buzzati, appena assunto al Corriere, scrisse al suo migliore amico: «Presto da qui mi cacceranno come un cane», e quando uscì Barnabo delle montagne, il suo primo successo, in redazione si pensò a un’omonimia... Viveva infatti in punta di piedi, e in punta di piedi se ne andò, cercando di non disturbare. «Era consumato dal tumore ma non chiamava mai, per non essere di peso», lo ricorda suor Beniamina, l’infermiera giovanissima che lo accudì nel suo ultimo mese di vita alla clinica "Madonnina" di Milano. A lei il Buzzati non credente – ma per tutta la vita alla ricerca di Dio – tentava di carpire quel segreto che, come aveva scritto tante volte, rende luminosi gli occhi di chi ha fede. Cronista fino all’ultimo, la interrogava, assetato di quel Dio bevuto con il latte materno ma poi dimenticato, o meglio, divenuto il suo tormento. Ecco perché Buzzati non è mai stato un ateo, un uomo senza Dio: come scrive Pascal, «non mi cercheresti, se non mi avessi già trovato», e di Pascal i Pensieri erano sul suo comodino il giorno della morte, accanto alle Confessioni di Agostino. «Ho nostalgia di Dio, e chi non l’avrebbe?», rivelava negli ultimi mesi a un collega, conscio come pochi altri che un mondo senza il suo Creatore è solo un atomo sperduto nelle «deserte voragini dell’universo». Disperatamente incapace di concepire la vita senza un Oltre, si dibatteva tra la paura di affidarsi e lo strazio di non saperlo fare: «Oggi nell’uomo il desiderio di Dio si è affievolito, e ne è nato un vuoto spaventoso che è la tragedia del mondo moderno». Un mondo che non apparteneva al suo essere «naturaliter cristiano», come lo definì Eugenio Montale sul Corriere il 29 gennaio del 1972, il giorno dopo la sua morte.Il 28 pomeriggio in una Milano innevata Buzzati si era accomiatato. Per dirla con le sue parole, aveva ricevuto la cartolina di precetto e, doverista fino all’ultimo, aveva obbedito con dignità, chiedendo alla moglie Almerina di fargli la barba perché all’incontro più importante di tutta la vita si va con eleganza. Non ricevette l’estrema unzione, ma l’ultimo bacio lo diede al Gesù in croce che pendeva al collo della suora. «Gli agnostici che non trovano pace sono più vicini al regno di Dio di quanto lo siano i fedeli "di routine"», ha ammonito di recente papa Ratzinger, che al dialogo interreligioso di Assisi per la prima volta ha invitato i non credenti. E «non esiste nessun uomo, per quanto infelice, a cui l’Eterno non abbia concesso un’occasione», aveva presagito lo stesso Buzzati: la fede è movimento, non un dato acquisito, è premio e traguardo dei cuori inquieti, non di chi si ferma perché pensa di possedere, e forse in tal senso nessuno fu più inquieto di lui. «Dio che non esisti, ti prego», fu la sua preghiera laica, ma ha un senso rivolgersi a un Padre che non c’è? La risposta nel suo amen, che era un credo: «Per la forza terribile dell’anima mia, se io lo chiamo verrà!». «Fratello ateo, nobilmente pensoso alla ricerca di un Dio che io non so darti – sembra offrirgli anni dopo padre Turoldo – attraversiamo insieme il deserto...».«La fede cerca, l’intelligenza trova. E, d’altra parte, l’intelligenza cerca ancora Colui che ha trovato», diceva sant’Agostino. Tra credenti e animi inquieti, allora, forse non esiste un confine.
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