mercoledì 14 agosto 2019
Riscaldamento climatico, acidificazione, inquinamento, presenza di plastica e sfruttamento delle risorse ittiche: così soffocano i grandi bacini d’acqua
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Appaiono sterminati. Al punto che l’aggettivo ’oceanico’ rievoca subito le traversate epiche di Cristoforo Colombo, Ferdinando Magellano e tanti altri navigatori impavidi. Restano inoltre misteriosi, come constatano i naturalisti, convinti di aver classificato solo una ristretta minoranza delle specie celate sotto il mantello blu che copre oltre i due terzi della Terra. Ma solo di recente, ci siamo accorti che sono fragilissimi. Anche perché se il pianeta fosse un pompelmo, mari e oceani presi assieme rappresenterebbero appena una goccia d’acqua.

Da qualche tempo, la metafora del pompelmo e della goccia d’acqua rimbalza fra le conferenze internazionali dedicate al 'pianeta blu'. Un modo anche per correggere un cruciale problema di percezione che l’umanità si porta dietro da sempre, quando cerca d’immaginarsi cosa siano gli oceani. Nasce in effetti pure dalla smisuratezza apparente delle distese blu l’idea coriacea del loro potere quasi illimitato di rigenerazione. La stessa idea che ha a lungo impedito di capire la portata dei danni arrecati alle distese da cui dipendono tanti equilibri fondamentali della vita. In termini biologici, gli oceani sono un’incomparabile caverna di Alì Babà, piena di meraviglie ancora in gran parte da scoprire. Ma per gli assetati di conoscenze, il paradosso è che molti tesori rischiano di restare per sempre preclusi all’intelligenza umana. A causa degli attuali stravolgimenti climatici e dell’inquinamento, infatti, numerose specie viventi potrebbero scomparire senza lasciare agli scienziati neppure il tempo di cominciare a ficcanasare.


I naturalisti sono convinti di aver classificato solo una ristretta minoranza delle specie celate sotto il mantello blu che copre oltre i due terzi della Terra. Le enormi potenzialità sono però in buona parte già in pericolo Li conosciamo troppo poco, e non sappiamo prevedere cosa può accadere, occorrerebbe un approccio di ricerca complessivo

«Torno da una missione in Nuova Caledonia, dove cerchiamo di capire se i diversi siti marini tutt’attorno comunicano fra loro. È un contesto ancora leggermente preservato rispetto alle barriere coralline australiane, già gravemente colpite dal cambiamento climatico. In questi ecosistemi, una variazione di temperatura di mezzo grado, o anche meno, può provocare catastrofi», ci spiega il biologo marino François Lallier, professore alla Sorbona e coordinatore della rete delle 16 'università marine' francesi. «Un analogo discorso vale per l’acidificazione dei mari. Non bisogna superare certe soglie critiche. Il pH scende di un decimo di grado e tutto pare ancora funzionare. Poi, scende ancora, fin quando si giunge a una crisi sistemica, con un numero difficilmente calcolabile di specie che scompaiono. Anche per questo, occorrerebbe insistere molto più sull’esplorazione marina, dato che ci troviamo ancora in gran parte di fronte a una terra incognita, soprattutto sui grandi fondali. Senza esplorazione, resta estremamente difficile valutare le evoluzioni dell’oceano».

I satelliti artificiali possono esplorare solo gli strati superficiali dei mari, mentre per le grandi profondità occorrono ancora imbarcazioni e batiscafi. Ma in proposito, anche in Europa, la flotta dei battelli per l’esplorazione comincia ad invecchiare e non sempre viene rinnovata al meglio. Inoltre, i tempi lunghi delle ricerche, a volte articolate lungo decenni, pongono un problema di coordinamento con le scelte del mondo politico, molto più propenso ormai a privilegiare gli studi apparentemente più promettenti in termini di applicazioni a breve termine.

Eppure, fra il patrimonio a rischio nella grande caverna di Ali Babà, potrebbero esservi pure tanti nuovi tesori di grande utilità applicativa per l’uomo, come biomolecole dal potenziale terapeutico. Con meraviglia, gli scienziati hanno ad esempio compreso le proprietà speciali di una proteina estratta dai vermi di mare, l’emeritrina, così come quelle dell’emoglobina prelevata da un comunissimo lombrico, l’arenicola marina. In entrambi i casi, queste scoperte potrebbero condurre verso surrogati del sangue umano utili ad esempio in chirurgia. Con un pizzico in più di fondi e curiosità scientifica, i ponti virtuosi fra biologia marina e medicina rappresentano un vasto campo ancora in gran parte da esplorare.

Intanto, gli allarmi sulla salute degli ecosistemi marini si moltiplicano. Nel caso del Mediterraneo, in particolare, c’è chi teme che certi fondali possano un giorno assomigliare a quelli del Mar Nero, senza ossigeno e dunque quasi privi di vita. Dei cambiamenti anche lievi a livello della superficie rischiano infatti di alterare la circolazione d’acqua ricca d’ossigeno fra le diverse profondità, con effetti potenzialmente devastanti. Fra le aree più fragili, il nord dell’Adriatico, anche per via dell’inquinamento. In termini biologici, si teme un "effetto domino": quando vengono ad esempio colpite certe specie con un ruolo chiave nella catena alimentare, le ricadute possono essere sistemiche.

Il 24 giugno, in conclusione del "Summit delle due rive" ospitato a Marsiglia, gli Stati firmatari, Italia compresa, si sono impegnati a trasformare il Mediterraneo in un "modello" per il resto del mondo, riducendo a zero inquinanti e plastica. Ma l’obiettivo pare ancora molto lontano. Per il naturalista Ferdinando Boero, presidente a Napoli della prestigiosa Fondazione Dohrn dedicata alla "cultura del mare", esiste pure un problema di priorità a cavallo fra scienza e politica: «Il mare non è una priorità nelle politiche di nessuno Stato, anche perché la comunità scientifica non è in grado di dare risposte univoche sulle proprie priorità. È una comunità troppo frammentata. Le scienze marine devono diventare scienza marina. Se viviamo, è perché c’è l’oceano. Senza, non ci sarebbe la vita. È più importante delle particelle fisiche e dell’universo, eppure riceve meno attenzione. È dunque anche colpa di noi scienziati marini che, a differenza dei fisici, non sappiamo dare un messaggio più comprensibile a chi ci chiede cosa occorre fare». Giudicando doverosi nuovi sforzi per una migliore tassonomia delle specie marine, Boero aggiunge: «Dietro le diverse visioni degli scienziati, c’è un motivo, ovvero la grande complessità delle questioni marine, affrontate da tanti punti di vista differenti. Ma tutte queste analisi devono poi giungere a una sintesi, che ancora manca. Abbiamo oggi un puzzle senza saper bene come ricomporre i pezzi. Nel mare, il tutto è molto più importante della somma delle parti».

Il problema è stato evidenziato anche in "Navigating the future V", nuovo rapporto dell’European Marine Board, il forum continentale degli oceanografi e altri scienziati consultati dalle istituzioni Ue. Nel documento, appena presentato a Parigi all’ultimo vertice "Eurocean", presso l’Unesco, si sottolinea proprio la necessità di superare gli approcci riduzionistici, per approdare a una visione scientifica d’insieme, olistica, sulle sfide del "pianeta blu". Del resto, l’Onu dedicherà alla scienza oceanica un intero decennio speciale a partire dal 2021.

A confermarci questi nuovi orizzonti è pure la biologa Sheila Heymans, docente in Scozia e direttrice esecutiva dell’European Marine Board: «Quando affrontiamo la questione delle risorse marine, dobbiamo ricordare che se vogliamo preservare la sostenibilità di un ecosistema, ci occorre conoscere tutti i processi che in esso operano assieme. Se ne afferriamo solo il 10%, non è possibile fare previsioni. Oggi, ad esempio, le risorse ittiche sfruttate dalla pesca sono meglio gestite nell’Atlantico, ma esistono tante altre specie di cui non sappiamo ancora molto, nelle stesse acque».
Blu e lucente, la più straordinaria caverna di Alì Babà che si possa immaginare merita dunque più ricerche e più considerazione che mai, se l’umanità non vuol finire scritturata nel ruolo ignominioso dei quaranta ladroni.

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