martedì 23 novembre 2021
I programmi energetici di molti Paesi stanno cambiando a causa della crisi ambientale
Nuove centrali nucleari, sì o no? Perché nel mondo se ne parla
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Il Presidente francese Emmanuel Macron nel presentare il suo piano di 30 miliardi di euro per “reindustrializzare” la Francia entro l’anno 2030, ha tra l’altro annunciato l’impegno a realizzare nuovi “piccoli reattori modulari” elettronucleari. Il discorso, del 12 ottobre, è da inquadrarsi anche nella campagna per le elezioni presidenziali del prossimo aprile, che egli spera di tornare a vincere: evidentemente promettere di costruire nuove centrali nucleari costituisce un vantaggio nel suo Paese, dove oltre il 70 percento dell’energia elettrica è generata tramite questi impianti. Ma il discorso di Macron incide in uno scenario ben più vasto di quello nazionale. L’Unione Europea deve decidere se inserire il nucleare tra le fonti adatte a risolvere il problema del riscaldamento globale dovuto ai gas serra: la Francia è favorevole, la Germania è contraria.

Intanto l’aumento del costo dei combustibili fossili, gas incluso, e la necessità di decarbonizzare stanno portando molti Paesi a rilanciare l’opzione nucleare: in particolare Gran Bretagna, Usa, Cina, Russia, Iran, Turchia e Slovacchia hanno in programma diversi nuovi impianti. E il Giappone, che chiuse tutte le sue 54 centrali dopo l’incidente di Fukushima del 2011, ne ha rimesse in funzione 9 e si propone di riattivarne altre per ottenere da queste almeno il 20% della propria energia entro il 2030. La Germania, che ha annunciato che chiuderà tutte le sue centrali nucleari e ne ha già ridotto l’uso, si trova a essere il Paese europeo dove l’elettricità è più cara (0,30 euro/kWh rispetto ai 0,19 euro/kWh della Francia, dati del secondo semestre del 2020) e dove maggiori sono le emissioni di CO2 nell’atmosfera: oltre 604 milioni di tonnellate nel 2020 rispetto alle 207 prodotte dall’Italia, il secondo Paese più inquinante in Europa (dati dell’Ue).

E in queste condizioni, a seguito dell’apertura avvenuta nel settembre 2021 di North Stream 2, il secondo gasdotto che giunge in Germania dalla Russia attraverso il mar Baltico senza passare attraverso Paesi problematici (per la Russia) come Ucraina o Bielorussia, ha raggiunto nuovi accordi per ottenere questo combustibile che peraltro contribuisce all’effetto serra. Tali gasdotti riforniscono anche altri Paesi europei, così che il loro moltiplicarsi non solo appare incoerente rispetto agli obiettivi di decarbonizzare, ma anche aumenta la dipendenza dell’Unione dalla Russia. Queste circostanze spingono alcuni Paesi a puntare per il futuro sui piccoli reattori modulari (Smr nella sigla inglese). Che particolarità hanno? «Sono semplici da costruire, hanno tempi di realizzazione relativamente rapidi – riferisce Marco Enrico Ricotti, ordinario di impianti nucleari al Politecnico di Milano – e danno maggiori garanzie di sicurezza poiché disporranno di sistemi di spegnimento passivi, che si attivano senza energia elettrica. Sono più flessibili dei reattori di grandi dimensioni e, oltre a generare energia elettrica, servono anche per il teleriscaldamento, la produzione di idrogeno e la dissalazione dell’acqua marina».

In Gran Bretagna ci credono: il 20 ottobre il Financial Times titolava: “I mini reattori sono in lizza per ricoprire un ruolo importante nel raggiungere gli obiettivi del controllo climatico” e spiegava come un consorzio di imprese stia preparandosi a costruire cinque Smr il cui costo «si aggirerà sui 2,2 miliardi di sterline per la prima unità e si ridurrà a 1,8 miliardi per quelle successive». Perché c’è anche un non indifferente problema economico. Si è soliti pensare che il punto debole dell’energia nucleare risieda nella sicurezza, visto quanto è accaduto a Chernobyl nell’86 e a Fukushima nel 2011. Ma se si considerano i dati forniti dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) emerge che le fonti di energia più pericolose sono quelle che rilasciano gas nocivi e particolato: la stima è che 4,2 milioni di persone ogni anno muoiano a causa del- l’inquinamento atmosferico. Al paragone le stime delle vittime mortali dell’incidente di Chernobyl variano tra 4 mila (ipotesi dell’Oms) e 60 mila (ipotesi dei ricercatori radiobiologi Fairlie and Sumner): l’aleatorietà deriva dalla difficoltà di conoscere gli effetti delle radiazioni sul lungo periodo. Mentre si valuta che l’incidente di Fukushima abbia causato 574 vittime mortali delle quali una per l’effetto delle radiazioni e le altre per il trambusto dell’evacuazione (dati forniti da Ourworldindata, organismo legato all’Università di Oxford e ad altri istituti universitari).

Appare inumano trattare argomenti che riguardano la sicurezza attraverso paragoni numerici in cui ogni unità rappresenta la vita di una persona, tuttavia purtroppo non v’è altro modo per rendere oggettivo il tema e strapparlo all’emotività, che non necessariamente suggerisce le soluzioni migliori. Le fredde statistiche mostrano che il nucleare non sembrerebbe così minaccioso rispetto ad altre fonti di energia. «Anche il problema delle scorie – sostiene Ricotti – è sovrastimato: infatti tutte quelle ad alta radioattività prodotte in Italia, le più pericolose, quando rientreranno dalla Francia e dall’Inghilterra in contenitori ad altissima sicurezza, occuperanno uno spazio grande come l’area di porta di un campo di calcio».


L’emergenza climatica ha rilanciato l’opzione dell’energia atomica per le minori emissioni di CO2. L’Europa è divisa. La soluzione dei reattori «Smr», il nodo dei costi e delle scorie

Posto che anche se l’ingombro è minimo, si tratta poi di far accettare alle popolazioni la collocazione delle scorie, il problema maggiore delle centrali nucleari potrebbe essere non tanto la sicurezza ma il costo che, come ritiene Margherita Venturi, ordinaria di Chimica a Bologna, appare superiore rispetto agli impianti eolici o fotovoltaici che «si costruiscono rapidamente, a differenza di quelli nucleari che richiedono un impegno pluriennale, e soprattutto usano materie prime gratuite e rinnovabili, di cui disponiamo senza limiti nel nostro territorio: a differenza del combustibile nucleare che dev’essere importato, non è rinnovabile, produce scorie e richiede una tecnologia complessa il cui know-how è andato in gran parte perso in Italia, dopo la chiusura delle nostre centrali a seguito del referendum dell’87. La tecnologia di solare e eolico è più semplice e sicura. E sta crescendo sempre di più».

Non è d’accordo Ernesto Pedrocchi, professore emerito di Energetica al Politecnico milanese: «L’Italia acquista più del 12% del proprio fabbisogno di energia elettrica da Francia e Svizzera che la producono col nucleare rispettivamente per circa il 75% e il 40%, quindi è di fatto utilizzatrice di questa fonte. E questa energia che importiamo costa meno di quella derivante da eolico o fotovoltaico, che sono fortemente incentivate». Inoltre in assenza di vento le pale eoliche non si muovono e di notte i pannelli fotovoltaici non funzionano: se un Paese come l’Italia dovesse dipendere da queste fonti ci vorrebbero grossi impianti di accumulo in cui immagazzinare energia in quantità sufficiente per il funzionamento di fabbriche e città a prescindere dai rivolgimenti del tempo. E le batterie a loro volta sono inquinanti e si costruiscono con materie quali le terre rare di cui la Cina è il maggiore produttore: anche qui l’autosufficienza è una chimera.

«I piccoli reattori nucleari – insiste Ricotti – si integrano bene con le fonti rinnovabili, e così permettono di garantire continuità nelle forniture di energia. Recentemente registriamo un aumento di interesse per questa tecnologia, e il numero di iscritti al corso di Ingegneria nucleare al Politecnico sta approssimandosi a quello dell’epoca pre-Chernobyl. Beninteso, stiamo parlando di un problema complesso, che non si risolve dall’oggi al domani e richiede una vasta struttura a rete, integrata e diversificata ». Resta il fatto che in Italia non solo le centrali, ma anche il supporto burocratico e gestionale per il nucleare non ci sono più né potrebbero rinascere in breve tempo. Ma ci sono all’estero. Si tratta forse di non chiudere gli occhi di fronte al fatto che usiamo questa energia proveniente da Paesi che continueranno a produrne.

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