venerdì 29 aprile 2011
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Se uno straniero va espulso perché presen­te irregolarmente sul territorio nazionale, è quanto meno una contraddizione metterlo in carcere. Vista sotto questo aspetto, la sen­tenza emessa ieri dalla Corte di giustizia euro­pea (organo giurisdizionale di quell’Unione al­la quale l’Italia fa appello quasi ogni giorno per avere il giusto e doveroso sostegno nella ge­stione dei flussi migratori provenienti dai tor­mentati Paesi dell’Africa settentrionale) è un e­sercizio di mera logica, in quanto tale incon­trovertibile. Si potrebbe aggiungere che uno Stato da anni alle prese con il sovraffollamen­to delle sue prigioni non dovrebbe avvertire il bisogno di 'inventare' nuove fattispecie di rea­to, incrementando così fatalmente le schiere dei reclusi. Ma il verdetto dei giudici di Lussemburgo non considera ovviamente tali ragionamenti. Va oltre e afferma un principio di diritto. Non a­stratto, si badi bene, ma molto concreto, ca­lato nella realtà quotidiana nella stessa misu­ra in cui prende le mosse dal caso di un si­gnore straniero condannato e finito dietro le sbarre a Trento per non aver ottemperato al­l’obbligo di tornarsene a casa disposto dal pre­fetto di Torino e ribadito dal questore di Udi­ne. Un principio che investe le responsabilità della Repubblica italiana di fronte alle diret­tive della stessa Ue. E che tocca da vicino il di­ritto incancellabile di qualsiasi persona alla propria dignità. Quando, nell’agosto di due anni fa, il Parla­mento trasformò in reato l’ingresso e la per­manenza irregolare sul nostro suolo patrio, un editoriale di Avvenire mise in rilievo che quella nuova 'creazione' penale portava in sé «la carica negativa di un giudizio somma­rio e ingiusto». Prima di tutto perché «nessun essere umano può mai essere definito 'clan­destino' sulla faccia della Terra» e, poi, perché la norma rischiava «di diventare non un’arma contro l’irregolarità» bensì «uno strumento persecutorio» nei confronti di migliaia di im­migrati in cerca soltanto di un’esistenza mi­gliore. La premessa, allora come oggi, è che «u­no Stato ha il diritto-dovere di stabilire le nor­me del vivere civile e del civile stare e restare nei suoi confini, e ha an­che il compito di evita­re che si consolidino si­tuazioni di irregolarità e di abuso». Ora la sentenza della Corte europea imprime a quelle argomentazio­ni il sigillo di un’ufficia­lità che i giudici italiani saranno tenuti a osserva­re. E che, evidentemente, il governo e le Camere non potranno ignorare. Certifi­ca, infatti, che la normativa italiana è in contrasto con la direttiva comunitaria in materia (la numero 115 del 2008) e «rischia di comprometterne l’o­biettivo », ovvero «l’instaurazione di una poli­tica efficace di allontanamento e di rimpatrio dei cittadini di Paesi terzi il cui soggiorno sia irregolare». Insomma, anziché agevolare i rim­patri, il reato di clandestinità li rende più pro­blematici. Del resto, appena due giorni fa, con una decisione passata quasi inosservata, è sta­ta la nostra Corte di Cassazione – escludendo l’applicazione di pene più severe agli extraco­munitari irregolari che non esibiscono i docu­menti di riconoscimento alle forze dell’ordine – a segnalare il reale pericolo che il «crescen­do sanzionatorio-repressivo» possa compro­mettere l’obiettivo «dell’espulsione dal terri­torio nazionale nel più breve tempo possibi­le». Sono, quelle in questione, solo le ultime due sentenze di una lunga serie che ha porta­to allo scoperto i punti deboli di un impianto legislativo nato ambizioso (ardito?) e rivelato­si invece poco solido, se non, appunto, con­troproducente rispetto agli stessi scopi che si propone. Un’ultima notazione, non certo per impor­tanza: la Corte di giustizia dell’Unione Europea, elencando le circostanze considerate ai fini della sua deliberazione, ricorda che «la diret­tiva 2008/115 non è stata trasposta nell’ordi­namento giuridico italiano». Riparare a questa inadempienza (come da più parti, da tempo, si chiede) significherà, inevitabilmente, ade­guarsi alla sentenza di ieri. Il reato di clande­stinità è un grave errore, umano e giuridico.
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