sabato 7 dicembre 2013
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«Sciapa» e «infelice» a chi? No, non ci siamo. I sensori del Rapporto Censis, abitualmente affidabili, stavolta propongono una fotografia che pare scattata più in laboratorio che in mezzo alla gente. E i due aggettivi scelti per descrivere la società italiana oggi sembrano adatti a un altro corpo sociale, forse meno reattivo e vitale del nostro. È vero: il clima diffuso è di inquietudine profonda, quando non di angoscia, se appena si scorrono gli indicatori economici e occupazionali diffusi a cadenza quotidiana dalle istituzioni, o semplicemente aggiorniamo la contabilità familiare. Ma dentro un’arida pietraia zeppa d’inciampi e di rovi, qual è la crisi senza fine apparente che attraversiamo, si coglie forse scoramento, paura di non uscirne mai, sfiducia verso chi promette che "si vede la fine del tunnel" e poi aggiunge un altro buco alla cinghia da tirare, ma infelicità e assenza di reazione proprio no. Perché l’una e l’altra sono figlie della rassegnazione, della rinuncia a crederci, dell’inazione pessimista: sintomi che certo molti italiani sperimentano, ma che il Paese in quanto comunità sa di dover tenere alla larga per non affondare nelle sabbie mobili della resa. Gli insipidi stanno a guardare, aspettano gli eventi, rinunciano a qualunque progetto; gli infelici si sono consegnati senza più combattere all’apparente impossibilità di guadagnare la luce del sole, disperano del futuro. È davvero così? Se c’è un’energia interiore che spinge gli italiani con la volontà oltre il deserto è proprio la tenace fiducia nella possibilità di farcela, la speranza concreta e operativa che sa spostare sempre un centimetro più in là l’asticella dell’obiettivo e del sacrificio necessario a conseguirlo senza mai disperare davvero. Caro Censis: non saremo felici, ma nemmeno depressi, e tantomeno sciapi. Vivi, semmai, più si alza la salita davanti ai nostri passi.
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