Non si può scherzare con l'«identità di genere»
martedì 20 aprile 2021

Ci sono circa 7mila persone in Italia per cui la legge Zan potrebbe diventare un involucro rassicurante con un contenuto amaro. L’involucro è rappresentato dalla vulgata ideologica che accompagna la legge e dal lessico scelto per le definizioni di genere, orientamento sessuale e identità di genere: se quello sarà davvero il riferimento culturale, i rischi di fraintendimento e di letture banalizzanti sono dietro l’angolo. Il contenuto è invece rappresentato dai frutti che deriveranno da tale impostazione. Stiamo stretti, qui, su questo punto. Siamo certi che quelle 7mila persone che soffrono di disforia di genere – che affigge chi deve confrontarsi con un’identità di genere irrisolta – trarranno benefici autentici dall’ondata di strumentalizzazioni e di superficialità che si sta alzando per via mediatica e potenzialmente ope legis?

La questione è stata lasciata un po’ sottotraccia dalla battaglia politico-mediatica e da un confronto comprensibilmente concentrato su pur serissime questioni giuridiche, eppure è il caso di parlarne. L’articolo 1, comma d, della legge licenziata dalla Camera recita: «Per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione». È uno dei passaggi più discussi di un testo che, al Senato, si dovrà 'unificare' con altre quattro proposte di legge. C’è l’occasione per riconsiderare in modo meno affrettato, tra gli altri punti contestati, anche le definizioni che fanno riferimento all’ambito antropologico. Soprattutto quella di identità di genere.

Sarebbe tutto più agevole se il testo che si propone di introdurre misure di prevenzione e contrasto contro omofobia, misoginia e abilismo, parlasse in modo più esplicito di transessualità? Forse, ma anche qui occorre distinguere, con serenità e spirito propositivo, allontanando qualsiasi retropensiero ideologico. È indubbio che dietro il concetto di identità di genere si intrecciano diverse sfumature...

Se il riferimento va a certa antropologia culturale che si richiama al sex gender system – la cosiddetta 'teoria del gender' – la contraddizione è dietro l’angolo. Ma esistono ancora lobby gender che puntano a sgominare il paradigma eterosessuale normativo e a favorire la dissoluzione della famiglia? Oggi anche la sociologa americana Judith Butler, considerata a lungo la 'profetessa del gender', è andata oltre questi schemi – forse perché ne ha intuito la fragilità – e si dedica a studiare temi come inclusione e violenza. Certo, introdurre come fa il comma d dell’articolo 1 la specificazione «indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione» complica ancor di più le cose. Al di là delle pretese gridate da alcune frange dei gruppi Lbgtq, il fatto di aver avviato un 'percorso di transizione', non basta affatto a definirsi uomo o donna. Né per la legge, nonostante alcune sentenze contraddittorie, né per l’equilibrio e il benessere delle stesse persone coinvolte. Forse basterebbe ricordare che nel nostro Paese la «rettificazione anagrafica del sesso» è ancora regolata dalla legge 164 del 1982, tra le più rigorose, giustamente, nell’indicare tempi e modalità di un percorso che non è mai senza inciampi e senza sofferenze. Qui entriamo nell’ambito della sessuologia clinica dove l’«identità di genere» ha, invece, un significato ben preciso. Si mettono da parte finalmente le ambiguità dei riferimenti 'gender' – o dell’archeologia ideologica residua – per approdare, con tanta fatica e tanta sofferenza, all’evidenza scientifica. Per la sessuologia l’«identità di genere», quando non s’identifica né con il sesso biologico né con l’orientamento sessuale, finisce per richiamare condizioni che, appunto, hanno un nome preciso: disforia di genere. Essa, detto in modo semplice, riguarda persone, che si sentono ingabbiate in un’identità diversa rispetto al proprio sesso biologico. Parliamo di circa 7mila casi perché le poche statistiche a disposizione stimano un caso su novemila persone. Un dato patologico costante, anche se in quest’ultimo decennio, caduto lo stigma sociale legato all’incertezza dell’identità sessuale, le richieste di 'transizione' si sono moltiplicate. Negare che esista, in questo chiaro senso, il problema dell’«identità di genere» vuol dire negare le sofferenze di persone che, quando il problema è reale e non ammantato di suggestioni ideologiche, finiscono per sperimentare un baratro di sofferenze, attese, delusioni, incertezze. Almeno la metà dei percorsi di transizione si interrompe quando le persone con disforia, o i loro genitori, si accorgono che non è quella la strada per la felicità. Non è mai facile, né banale, né privo di rischi il sogno di colmare la frattura tra il proprio sesso biologico e la percezione dell’identità personale.

Per questo, quando gli estensori della legge giustificano il richiamo all’«identità di genere» con precedenti riferimenti giuridici o alla Convenzione di Istanbul che ne fa cenno, dovrebbero rendersi conto che, né l’una né gli altri, offrono chiavi di lettura adeguate perché, in tutti questi casi, si liquida in poche righe una complessità profonda che implica tante domande, anche contraddittorie e disturbanti, a cui né la scienza né la morale offrono risposte davvero soddisfacenti. Ecco perché deve essere valutata con favore l’occasione di rivedere, approfondire, ricercare senza stancarsi soluzioni più condivise del cosiddetto ddl Zan.

Nel concetto di «identità di genere», fuori e lontano da strumentalizzazioni e semplificazioni improprie, e in un modo che il legislatore non sta cogliendo né rendendo chiaro, c’è un dolore che segna la carne viva delle persone.

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