giovedì 7 maggio 2015
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Reato di tortura: sarà la volta buona? Così s’era detto non molte settimane fa, dopo la sferzata venuta dall’Europa per gli incresciosi fatti del 2001, con l’auspicio che la sentenza desse un’accelerata decisiva per tradurre in legge norme che si attendono dal novembre 1988, da quando cioè il Parlamento diede il via libera alla ratifica della 'Convenzione contro la tortura ed altre pene e trattamenti, crudeli, disumani e degradanti', firmata a New York, sotto l’egida dell’Onu, il 10 dicembre 1984. Poi, altri fatti recenti e altre cronache, ultimi quelle di Milano, hanno fatto recedere la questione nell’agenda politica. E tuttavia, il prevedere, finalmente, un crimine esplicitamente denominato come 'tortura' avrebbe un alto significato, non solo simbolico, a garanzia dell’impegno dell’Italia per la più radicale sconfessione di comportamenti che nulla può giustificare. Ma sarebbe sbagliato ridurre il tutto a una questione di etichette.  In effetti, quella Convenzione (art. 4) chiede, sì, agli Stati di «vigilare», tra l’altro, «affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni... passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità», ma – senza entrare in maggiori dettagli sui modi in cui formulare le relative norme incriminatrici – essa si preoccupa piuttosto, con parecchie delle sue clausole, di scongiurare qualsiasi forma di impunità per i responsabili, escludendo scappatoie che impediscano di sottoporli alle sanzioni dovute.  Del resto, è proprio tale aspetto, a essere messo maggiormente in rilievo pure dalla sentenza della Corte europea, la quale ha deplorato che, per quella che uno stesso funzionario di polizia ebbe a definire una «macelleria messicana» e le cui modalità sono abbondantemente documentate, i responsabili siano stati sottratti a un’equa sanzione, contrariamente a quanto vuole l’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. È per queste ragioni che a essere posto sotto accusa a Strasburgo è stato il nostro intero sistema di giustizia penale: sistema – dice la sentenza – «rivelatosi inadeguato in rapporto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura compiuti e privo dell’effetto dissuasivo necessario a prevenire altre violazioni del genere».  Tutto ciò, peraltro, non per un’assoluta esiguità di pene previste in astratto: già per le lesioni gravi – contestate agli imputati dei processi di Genova – era ed è comminata, se il delitto è commesso con sevizie o crudeltà, la reclusione in misura tale da sfiorare i dieci anni: poco al di sotto, insomma, delle pene massime stabilite, ad esempio, dai codici austriaco e tedesco, che pur configurano come reato specifico quello di tortura. Il fatto è che, nel caso della scuola Diaz, gli accertamenti sono stati dapprima sviati da depistaggi organizzati e poi vanificati da indulti e prescrizioni estintive. Ben venga dunque la nuova legge. E speriamo che le polemiche politiche, divampate più o meno strumentalmente (e presto spentesi), e la stessa ricerca di un 'meglio' a confronto di un 'bene', a torto o a ragione giudicato mediocre, non rimandino di nuovo l’approvazione alle calende greche.  Né si dica che la severità, in questo campo, costituisce un atto di sfiducia nelle forze dell’ordine o addirittura un incentivo ai comportamenti violenti degli 'antagonisti'. Il fatto è che le violenze di piazza erano e sono, sì, da reprimere per le vie legali, e da contrastare sul campo, se necessario, anche con la forza, salvaguardando i poteri affidati alla polizia dal vigente codice penale; ma non possono scusare certe reazioni, compiute 'a freddo' su persone, almeno in quel momento, inermi (E in questi giorni abbiamo visto, fortunatamente, esempi virtuosi di interventi dissuasivi compiuti dalle forze dell’ordine). Piuttosto, a rischiare di innescare o irrobustire una deleteria spirale di violenze è il continuare a scorgere, in reazioni del genere, soltanto sfoghi comprensibili o addirittura sacrosanti, come fanno quanti confondono la necessaria solidarietà dovuta ai tutori della legalità con l’indulgenza per chi infrange uno dei pilastri di quella legalità che dovrebbe tutelare. 
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