Non oltre il bisogno ma oltre la cupidigia
venerdì 11 gennaio 2019

Stupisce l’attenzione di Gesù alla fame altrui e propria. Non per nulla il miracolo più raccontato è la moltiplicazione dei pani e diverse pagine lo descrivono capace di godere della tavola, con giusti e peccatori. L’insegnamento di Cristo è colmo di riferimenti alla fame e ai cibi che la onorano. Significativo è il suo comando ai genitori di una bambina appena risuscitata: «Datele da mangiare!», come se il ritorno alla vita corrispondesse alla rinnovata apparizione del bisogno. Egli invita a «mangiare» il suo corpo e «bere» il suo sangue. E perfino da risorto mangia davanti ai suoi una porzione di pesce arrostito. Immaginare il Paradiso come la situazione in cui il bisogno sarà definitivamente cancellato, corrisponde davvero al modo con cui la Bibbia ne parla? Lacrime e lutto saranno eliminati (Ap 21,4), non il mangiare e il bere, tant’è che ai salvati vien dato «da mangiare dell’albero della vita» (Ap 2,7) e offerta l’acqua della vita (Ap 21,6).

È strano che i discepoli di Cristo, così attento al bisogno proprio e altrui, abbiano spesso denigrato il bisogno. Magari nella forma apparentemente caritatevole d’interessarsi al bisogno degli altri; in alcuni casi più o meno consapevole strategia per distrarsi dal proprio. Si sospetta che il bisogno sia impeto da controllare tramite l’intervento della morale o della spiritualità, in nome di una imprecisata idea di trascendenza. Probabilmente la disistima nei riguardi del bisogno risulta dall’allergia al legame tra uomo (la fame) e terra (il cibo), in nome di una assolutezza (ab-solutus, slegato), considerata come autentica spiritualità. In realtà, così pensando, si misconosce che proprio nel bisogno è dato all’uomo il primo, elementare sentore della trascendenza. Infatti, quando il corpo prova fame, sete, sentendo sé, sente già altro; parlando di sé, parla già d’altro: di cibo, bevande, realtà esterne a lui, altre da lui, diverse, trascendenti, eppure così congiunte da diventare con lui «un’unica carne». Il primo lampo della trascendenza è proprio nell’immanenza della carne bisognosa.

Forse si disprezza il bisogno proprio a motivo dell’esigente altezza del suo magistero carnale. Innanzitutto esso è il promemoria della nostra nascita. Nel grembo materno, il bambino prova necessità, ma non bisogni, dato che il corpo della mamma elargisce in anticipo l’indispensabile. Perciò ha tutto senza chiedere, provando una sorta di onnipotenza. La nascita coincide con la negazione di tale onnipotenza, poiché chi viene al mondo deve chiedere e domandare le cose necessarie alla vita. Il bisogno rammenta a ciascuno la propria identità filiale.

In nome del nativo bisogno, il bambino è anche introdotto nel mondo degli affetti, poiché la mamma, mentre allatta, lo guarda e gli sorride, favorendo la sua restituzione dello sguardo e del sorriso. E così è acceso il primo bagliore della coscienza di sé ('sono uno degno d’esser guardato e capace di riguardare') e di altri ('c’è qualcuno che ha scelto di guardare proprio me'). Perciò il bisogno argomenta (con ragionamento tutto carnale) l’insostenibilità di qualsiasi forma di egocentrismo narcisistico: nessuno è l’unico essere al mondo! Tant’è che ciascuno deve ammettere almeno l’esistenza di altre cose come cibi e bevande… senza le quali neanche avrebbe la forza di ritenersi l’unico essere al mondo. Qualora si comprendesse il quotidiano magistero del bisogno, scomparirebbe in gran parte la sanguinosa ingiustizia che devasta il mondo, dovuta al pensare e agire come se ciascuno fosse l’unica realtà esistente, per giunta capace di autogenerarsi e nutrirsi da sé e di sé.

Inoltre, ben diversamente dall’opinione comune, la carne bisognosa sa darsi da sé regole e limiti, realizzando la prima espressione della legge. Infatti, fame e sete impongono al corpo: 'Mangia! Bevi!', imperativi difficilmente ignorabili. E, al contempo, soddisfatta la fame, il corpo dice: 'Basta così!'. Il goloso non dà credito alla voracità sfrenata e cieca del bisogno, ma – al contrario – lo violenta, costringendo il corpo a mangiare anche quando non ha più fame, a bere perfino senza sete. I vizi non sono dovuti alla prepotenza dei bisogni, ma all’arrogante sopraffazione di essi da parte del pensiero e della libertà che li distorce e li deforma, abusando della carne. Quanto è difficile sottomettersi alla severa disciplina del bisogno che ordina di apprezzare ciò che è fuori del corpo e, nello stesso tempo, comanda: 'Basta così!'. Se dal 'Basta!' insegnato dal bisogno si imparasse il concetto tutto carnale di 'abbastanza', l’umanità sarebbe miracolosamente liberata dall’incubo dell’accumulo di cose, di terra, di risorse, che spalanca le porte all’avidità, madre dell’ingiustizia.

Oltre a ciò il bisogno rappresenta l’antidoto contro l’invidia, cancro dell’anima, l’incapacità di vedere (in-videre) il bene presente nel mondo. Fame e sete insegnano quotidianamente che al mondo ci sono almeno 'cose buone' da mangiare e bere. Il bisogno, con esortazione tutta carnale, persuade a riconoscere che il bene è anche fuori e non solo rinchiuso dentro i confini dell’Io. E ciò vale ovviamente anche per un’idea, una cultura esteriore a chi si ritiene l’unico depositario del bene.

Pare proprio che il Creatore, unendo fin dall’inizio l’uomo e la terra anche attraverso il vincolo della fame e del cibo, abbia voluto dire qualcosa. L’attenzione di suo Figlio al bisogno ricorda che non è bene dividere ciò che Dio ha congiunto.

Sacerdote, docente di Cristologia

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