sabato 28 aprile 2012
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Si moltiplicano i casi di famiglie, piccoli imprenditori, di esercenti, di disoccupati che non riescono più – nell’attuale congiuntura socio-economica – a pagare tutte le tasse e gli oneri sociali, ponendosi per questo problemi di giustizia contributiva. E questi arrivano sempre più frequentemente ai sacerdoti, come pastori e direttori di coscienza. In queste storie non c’è ombra di alibi o di tentazione all’evasione fiscale: esse dicono di indigenze reali e di sofferti conflitti di coscienza. Un esempio per tutti: il piccolo imprenditore in crisi, che non se la sente di licenziare i propri dipendenti e chiede se sottrarsi a qualche tributo sia una colpa. Il quesito che, così, si pone al teologo della morale è se sia legittimo – nei casi citati – ricorrere al "principio delle leggi meramente penali". Principio per cui una legge civile può non obbligare in coscienza, così che sottrarsi a essa non costituisce peccato.Dopo un costante e convinto insegnamento di teologi, pastori e catechisti, che in uno stato di diritto ubbidire alle sue leggi – in particolare pagare imposte e contributi sociali – è un obbligo non solo penale, ma prima ancora morale, e che disattenderlo è non soltanto reato, ma anche peccato, non avremmo mai immaginato di dover riandare e in maniera così estesa al "principio delle leggi meramente penali".Il principio è stato elaborato dai saggi moralisti del Settecento e applicato dai buoni pastori partecipi delle vicende del proprio "gregge" per tutelare i poveri, angariati da legislazioni tributarie vessatorie, a opera di sovrani e principi autocrati nel legiferare e nel vincolare i propri sudditi. Il principio sorge, dunque, in una contingenza socio-politica dispotica, mutata la quale esso decade. Per questo in uno Stato di diritto il principio in sé non vale: una legge improntata a diritto e giustizia obbliga moralmente. Trasgredirla comporta, prima che una pena, una colpa. Pagare le tasse è contribuire al bene comune: sottrarsi a questo contributo è un male morale, cioè un peccato. Occorre però che la gente percepisca questo bene.A tale percezione contribuiscono due fattori in particolare: l’equità dell’imposizione fiscale, data dalla proporzionalità dei tributi da pagare (ciascuno secondo possibilità), e l’onestà dei politici nella gestione e ridistribuzione del bene comune. Entrambi i fattori oggi stanno subendo una corrosione progressiva nei fatti e nell’immaginario delle coscienze, con effetti dirompenti sulla convivenza civile e sulla fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Sul versante dell’equità fiscale, l’elevato tasso d’imposizione, da una parte, e d’evasione, dall’altra, e la divaricazione a forbice tra ricchezza e povertà nel nostro Paese dicono di una iniquità che penalizza i poveri e gli onesti, al punto da imporre loro oneri che varcano persino la soglia di sostenibilità. Sul versante dell’onestà, a sua volta, i casi di prevaricazione e corruzione della politica (fino a certe correità con le mafie), il costo esorbitante della stessa, la tenace autoreferenzialità dei partiti, l’eccedenza dei privilegi sui diritti, l’immenso spreco di risorse pubbliche (a cui l’attuale governo sta cercando di porre rimedio con una "revisione delle spese" sinora mai tentata davvero), rovesciano sull’imposizione fiscale, al limite e oltre la sua sopportabilità, il carico economico di questa dissipazione.Tanti italiani percepiscono ormai queste perversioni della politica come una grande ingiustizia. E se questa è la situazione di fatto nelle condizioni di vita e nei pensieri della nostra gente – soprattutto di quelle persone e famiglie che sono su o già oltre la soglia di povertà, di quegli imprenditori ed esercenti che non ce la fanno a stare sul mercato, di quella massa di giovani che disperano di un lavoro – e tutto questo prende forma d’ingiustizia e sopruso, allora vuol dire che sono in atto nuove condizioni di vigenza del "principio delle leggi meramente penali".«Non videtur esse lex quae iusta non fuerit» (non si vede come possa esserci una legge ingiusta), insegnava Tommaso d’Aquino. Una legge ingiusta decade come legge, non obbliga. Di qui le gravi responsabilità degli uomini e delle donne dei partiti e della politica di promulgare e far valere leggi giuste e sostenibili, soprattutto di giustizia tributaria, e di essere modelli di equità e onestà legislativa e amministrativa. Questo salto di qualità, reale e ben percepibile, è necessario per non allontanare ancor più, e con esiti disastrosi, la politica e lo stato dal diritto, e per non indurre pastori e direttori di coscienza a tornare al "principio delle leggi meramente penali" per liberare le coscienze dei poveri e degli onesti dal rimorso di un tributo non pagato.
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