Non deportare ma cambiare
mercoledì 3 maggio 2023

La premier Giorgia Meloni a Londra ha manifestato piena sintonia con l’approccio al diritto di asilo sostenuto dal premier conservatore Rishi Sunak, e prima di lui da Boris Johnson: deportazione in Ruanda per chi arriva nel Regno Unito spontaneamente, anche se proviene da un Paese in guerra, è perseguitato per ragioni etniche o religiose, appartiene a una minoranza oppressa. Per entrambi i leader, la sacralità dei confini nazionali conta più dei diritti umani universali, ossia in definitiva della sacralità della vita delle persone in pericolo.

La posizione del Ruanda nell’indice dello sviluppo umano, al 165° posto su 191 Paesi in classifica, ossia uno dei luoghi al mondo in cui si vive peggio, non scalfisce questa granitica linea di sbarramento. Anzi, Meloni è andata all’attacco preventivo, tacciando di razzismo chi solleva dubbi sull’idoneità del Ruanda a proteggere, dietro pagamento, le persone trasferite a forza dal Regno Unito. Vedremo che cosa ne pensa la Cedu (Corte europea dei diritti dell’uomo), che nel giugno dello scorso anno ha decretato la sospensione della discussa iniziativa britannica, vigorosamente contestata, fra le molte voci, accanto all’accorato appello di papa Francesco, anche dall’arcivescovo di Canterbury e da decine e decine di vescovi della Chiesa anglicana.

Nel frattempo, però, il Parlamento europeo, dopo lunghe negoziazioni e sofferte mediazioni, ha dato il via libera a prudenti, ma importanti proposte di modifica delle regole su immigrazione e asilo. Comincia ora una trattativa con il Consiglio, ossia con i governi nazionali, che sarà almeno altrettanto complicata. Più che prevedibile l’opposizione di Budapest e Varsavia, forse di altre capitali dell’Est. Ma intanto qualcosa si è mosso, le istituzioni europee dopo anni di stallo hanno assunto l’iniziativa e partorito un’idea di riforma che suscita speranze.

Nella sostanza i legislatori europei, pur ribadendo un quadro di controlli sugli accessi e di precauzioni securitarie, propongono di attenuare le rigide regole delle convenzioni di Dublino, come auspicato da anni dall’Italia. Per esempio, si valorizzano i legami familiari: se un richiedente asilo ha un parente che risiede in uno Stato membro, quello Stato dovrebbe assumere la responsabilità di vagliare la domanda di asilo. Anche nel caso di minori non accompagnati, la competenza dovrebbe seguire i legami di parentela. La responsabilità del primo Paese di approdo, dunque dell’Italia per gli arrivi dal corridoio centrale del Mediterraneo, dovrebbe diventare residuale, e cessare del tutto dopo dodici mesi.

Nel caso, inoltre, di arrivi improvvisi e massicci, dovrebbero scattare meccanismi di solidarietà tra gli Stati membri: aiuti aggiuntivi a chi accoglie, e soprattutto trasferimenti obbligatori verso altri Paesi, insieme a procedure più veloci per il riconoscimento della protezione internazionale. Il punto è dirimente, perché apre al passaggio da una solidarietà volontaria, finora assai reticente, a una condivisione obbligatoria dell’onere dell’accoglienza. Netta la posizione del relatore della proposta, il deputato spagnolo Juan Fernando Lopez Aguilar, secondo cui il nuovo regolamento assicura una «vera solidarietà tra gli Stati membri, attraverso un meccanismo di ricollocazione prevedibile ed obbligatorio».

Il governo italiano dovrebbe salutare come una vittoria il voto del Parlamento europeo e rimboccarsi le maniche per convincere gli altri governi ad approvare le nuove misure, a partire dai sodali politici del gruppo di Visegrad. Peccato però che a opporsi alla riforma a Strasburgo non siano stati soltanto i deputati sovranisti dell’Europa dell’Est, ma anche quelli italiani. Questo, purtroppo, rende chiaro che a chi fa delle migrazioni e dell’asilo dei perseguitati uno strumento di propaganda, le soluzioni non interessano. Serve di più tenere aperto il tema dell’«invasione», alimentare il contenzioso con Bruxelles e continuare a biasimare la sordità dell’Europa.

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