A pagare saranno prima gli italiani
giovedì 16 maggio 2019

«Prima gli italiani», slogan pseudo-politico decisamente in voga. Echeggiava ieri persino nelle sale operative e, anche, nella testa di molti piccoli risparmiatori. Nel senso: “Vendi prima i titoli di Stato italiani”, vendi Bot e Btp. E così il rendimento di quelli decennali è schizzato al 2,8%, mandando lo spread fino a 290 punti. Il differenziale non si arrampicava a quella quota dall’autunno scorso, quando il governo era nel pieno dell’aspra dialettica con la Commissione Ue per il tetto al deficit da inserire nella Legge di bilancio. Finì con un ripiegamento italiano, com’è noto, e lo spread abbassò un po’ la cresta.

Alla fiammata di ieri mancava invece “sostanza”. Non ci sono al momento tavoli aperti con Bruxelles. Nessun pronunciamento imminente delle agenzie di rating, stime di crescita o decisioni di politica economica in grado di muovere i mercati. Tutt’altro: ieri Bankitalia ha addirittura comunicato che a marzo il debito pubblico è calato di 4,4 miliardi, confermandosi comunque a un livello ipertrofico di 2.358 miliardi.

Un «nervosismo ingiustificato», ha commentato il ministro dell’Economia, Giovanni Tria, per l’assenza di ragioni tecniche. Ad accendere il differenziale tra Btp italiani e Bund tedeschi, lo spread appunto, sono state dunque le parole della politica. Nel frangente quelle pronunciate dal vicepremier e capo della Lega, Matteo Salvini, pronto a superare – per ora in campagna elettorale – il tetto Ue del 3% nel rapporto deficit/Pil e del 130-140% tra debito e Pil. Un flatus vocis, lo chiamerebbe Roscellino di Compiègne, che diventa però materia incandescente nel mercato delle obbligazioni governative. Parole pesanti, cioè, e tanto improvvide quanto care: dieci punti di spread in più per un anno costano al Tesoro – e quindi agli italiani – 350 milioni in maggior spesa per interessi. Cento punti fanno tre miliardi e mezzo. Se lo spread rimanesse a questo livello fino a dicembre, già il conto per il 2019 aumenterebbe di cinque miliardi.

Soldi degli italiani anche questi, buttati alle ortiche o meglio loro sottratti. Al ministro dell’Interno, però, lo spread non interessa: viene prima il lavoro, ha ribadito ieri. Prima il taglio delle tasse, perché di una crescita allo 0,3% non ci si può certo accontentare. Slogan sottoscrivibili da chiunque, non solo in campagna elettorale. Tra il dire e il fare c’è però di mezzo proprio il mare del debito: settanta miliardi l’anno di spese per interessi, l’equivalente della nostra spesa per l’istruzione, ci impediscono di destinare risorse allo sviluppo. E maggior deficit significa nuovo debito. Uno spread elevato non ha solo un impatto negativo sui conti pubblici, che peggiorano, ma anche sull’economia reale a causa dei maggiori costi a carico di famiglie e imprese.

Più spread significa cioè meno crescita, meno lavoro e in ultima analisi pure meno possibilità di tagliare le tasse. Nelle condizioni in cui si trova l’Italia, la stabilità finanziaria è infatti la pre-condizione per la crescita, non viceversa. A ricordarcelo sono ogni giorno Spagna (spread 106), Portogallo (124) e Irlanda (61), Paesi usciti come noi con le ossa rotte dall’ultima grande crisi, ma che hanno prima rimesso i conti in ordine, tagliando anzitutto la spesa improduttiva, poi sono ripartiti a velocità più che doppia rispetto alla nostra. Anche l’Ungheria corre, vero. Secondo Salvini proprio grazie alla flat tax al 15% che il vicepremier e capo della Lega vorrebbe introdurre in Italia. Ma oltre ad avere un bilancio pubblico da manuale di Maastricht e una spesa per Welfare in rapporto al Pil lontanissima da quella italiana, il Paese guidato da Viktor Orban ha introdotto a dicembre, quando da noi si predisponevano invece Reddito di cittadinanza e Quota 100, una “legge schiavitù” che consente ai datori di lavoro di chiedere ai loro dipendenti – prima gli ungheresi, quindi – fino a 400 ore di straordinario all’anno e di ritardarne il pagamento per tre anni.

Ammesso e non concesso allora che si riesca a sforbiciare anche da noi le imposte dirette, il governo deve almeno trovare il modo di non alzare in autunno quelle indirette, disinnescando le clausole di salvaguardie sull’Iva. Servono 23 miliardi, oltre mezza Manovra. Ci vorranno spalle larghe e coraggio politico per formulare la prossima Legge di Bilancio, perché il sentiero è strettissimo. E tutto ciò alimenta il sospetto che ci possa essere nuovamente la necessità di trovare un capro espiatorio per giustificare le promesse mancate. Chi meglio dell’Europa, dei mercati dello spread? A pagare il conto intanto siamo noi: prima gli italiani, certo.

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