giovedì 10 agosto 2023
La prima presidente della Cassazione: da giovane pm era come un esame costante, dovevi dimostrarti eccellente per essere accettata appieno
Margherita Cassano

Margherita Cassano - IMAGOECONOMICA

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Margherita Cassano, prima presidente della Cassazione: da giovane pm era come un esame costante, dovevi dimostrarti eccellente per essere accettata appieno Donne che hanno sfondato il soffitto di cristallo, che negli ultimi mesi hanno tagliato traguardi mai raggiunti: con questa serie estiva Avvenire presenta il percorso di alcune protagoniste della scena italiana, i successi raggiunti con determinazione, ma anche la vita privata e la speciale leadership femminile che sempre più si afferma nell’economia e nelle istituzioni. Dopo Annamaria Barrile, direttrice di Confagricoltura, e Donatella Sciuto, rettrice del Politecnico di Milano, ora Margherita Cassano, primo presidente di Cassazione.

Da una finestra, la luce dell’estate romana illumina il grande ufficio del Primo Presidente delle toghe in ermellino. Accanto alla vetrata, colorate orchidee ingentiliscono la stanza, in contrasto con le tonalità noce delle boiserie e della scrivania. Un tocco verde, capace di rendere meno austeri i marmi e le pietre squadrate del Palazzaccio, come i romani apostrofano l’imponente edificio sul lungotevere in cui ha sede la Cassazione. «Sono fiori e piante che mi hanno regalato il giorno della nomina. Li ho messi qui, mi pare che ci stiano bene», sorride accogliente Margherita Cassano, che da marzo governa con competenza, garbo e un pizzico di arguzia toscana, la Suprema Corte. Nata a Firenze nel 1955, in magistratura dal 1980, di glass ceiling ne ha infranti tanti, piccoli e grandi. Giovanissima pm fiorentina, ha lavorato per anni nella Direzione distrettuale antimafia. In tempi in cui le donne a Palazzo dei Marescialli erano rare, è stata componente del Consiglio superiore della magistratura. Dopo aver presieduto la Corte d’Appello fiorentina, dal 2020 è diventata presidente aggiunto della Suprema Corte, fino a salire l’ultimo gradino cinque mesi fa. Il suo approccio è affabile, carico di empatia._Solo per un attimo la voce s’incrina, commossa, quando chiediamo quali sensazioni abbia avuto il 1° marzo, quando il plenum del Csm ha sancito la sua nomina: «I sentimenti che mi si sono accavallati dentro sono stati molti. Ho pensato immediatamente ai miei genitori. Due mesi prima avevo perso mia madre e il pensiero è corso a lei. Grazie a entrambi, alla loro educazione, ai loro insegnamenti ho raggiunto questo traguardo. Nel medesimo momento, ho avuto la consapevolezza che scattava una responsabilità ancora più intensa di quella già vissuta, svolgendo la funzione di primo presidente aggiunto dal luglio 2020».

«È stato infranto un altro tabù», si è detto per la sua nomina. Pensa che effettivamente sia così, in magistratura e nella società?

La designazione di una donna in questo incarico è storicamente una novità. Ma mi auguro che in futuro non lo sia più. Perché quando non farà più notizia, vorrà dire che davvero si sarà raggiunta la vera parità tra uomo e donna. Nel mio caso, peraltro, va ricordato che solo nel 1963 è stato consentito l’accesso delle donne in magistratura. Le prime 8 donne sono entrate solo nel 1965, tracciando la strada a noi tutte. Per me, la parità di genere rafforza lo Stato di diritto, accrescendo in chiunque la consapevolezza che qualunque istituzione, anche la magistratura, può crescere in modo più ricco e fecondo se può giovarsi della diversità di vedute e delle differenti esperienze di uomini e donne.

Sono trascorsi 60 anni dalla legge n. 66 del 9 febbraio 1963, che consentì alle donne l'accesso alle funzioni giurisdizionali.Da allora, le toghe in rosa sono via via aumentate fino a superare nel 2015 gli uomini: 5.321 su 9.534, il 55%. Eppure, negli incarichi direttivi, quella percentuale precipita al 30%. Perché?

Per varie ragioni. Le regole per mutare funzioni e luogo di svolgimento, con cambio di distretto se si vuole passare da quelle requirenti a quelle giudicanti nel settore penale, incidono sulla mobilità, specie delle donne, che spesso debbono contemperare l’organizzazione di un’attività professionale con la cura di impegni familiari. Una difficoltà obiettiva, un disincentivo per alcune dall’aspirare a incarichi direttivi. Ma questo sta cambiando: tra il 2015 e il 2016 sono state nominate presidente di Corte d’Appello 9 colleghe. Ciò detto, per me il modo migliore per interpretare il nostro ruolo non è come un cursus honorum o una proiezione di potere, ma come un servizio ai cittadini, cercando la strada più congeniale al proprio modo di essere.

Anche nel Consiglio superiore della Magistratura, dove 25 anni fa lei venne eletta nella lista di Magistratura Indipendente, la vexata quaestio della rappresentanza di genere è un tema di casa. Nelle quattro precedenti tornate elettorali sono entrate solo otto donne. Ora sono diventate un terzo dei componenti del plenum (6 togate e 4 laiche). Un dato basso se confrontato con il numero di magistrate, ma comunque il più alto della storia. Siamo sulla strada giusta?

Nella consiliatura di cui ho fatto parte, fra il 1998 e il 2002, non ero sola: c’erano altre tre colleghe togate più una componente “laica”. Fu comunque una novità perché prima di noi al Csm erano arrivate solo Elena Paciotti, la prima togata ad essere eletta, e per i laici l’avvocatessa Fernanda Contri. La maggior presenza oggi è un traguardo importante ed è dovuta al dibattito culturale interno all’Anm e all’intera magistratura sul fatto che la presenza delle donne sia fondamentale per aprire prospettive diverse: pensiamo al tema dell’organizzazione degli uffici e del benessere lavorativo, ad esempio per le mamme giovani impegnate nella cura dei bambini piccoli. Su questi e su molti altri aspetti il confronto fra uomini e donne, anche in seno al Csm, è un fattore di arricchimento.

Personalmente, si è mai scontrata con qualche “soffitto di cristallo”?

Ricordo all’inizio del mio percorso qualche atteggiamento, sfumature, perplessità che potevano accompagnare la carriera di una giovane donna in toga. Iniziai con la carriera requirente. Era come un costante esame: dovevi dimostrare di essere al di sopra della media per essere accettata appieno. Nel 1981, fresco sostituto procuratore a Firenze, dopo 24 ore mi misero di turno: una sommossa in carcere, una brutta rapina, giorni dopo un omicidio. Fu un battesimo del fuoco. Ma non penso che i colleghi di allora l’abbiano fatto per mettermi in difficoltà. Erano anni difficili.

Da pm, le è mai capitato di entrare in contatto con donne di mafia che avevano scelto l’altro lato, quello oscuro?

Nelle inchieste di mafia, gli imputati erano quasi sempre uomini, ma mi sono capitate donne sottoposte a indagine. A volte, l’imputata vive come una sfida il confronto con un pubblico ministero donna come lei. La difficoltà sta nel trovare le corde giuste per entrare in relazione.

La sensibilità femminile in cosa l’ha aiutata?

In molte cose. Nelle dinamiche in camera di Consiglio, per esempio: noi donne siamo molto attente alle sfumature umane, sappiamo renderci conto di quando si possono creare inutilmente tensioni, siamo attente a valorizzare l’apporto di tutti. Le donne sono più compositive e in genere tendono a mettersi meno in mostra, guardano più al risultato finale e non necessariamente a prendersene i meriti. In ogni caso, che un magistrato sia uomo o donna, ritengo cruciale che non faccia prevalere la dimensione del potere, che indubbiamente deve esercitare, ma quella del servizio, nella consapevolezza del limite. La nostra è una giustizia umana, coi suoi limiti. La metodica del dubbio, l’evitare di partire da posizioni preconcette, il perseguire il metodo popperiano della “falsificazione” e della smentita, il chiedersi sempre se la strada scelta sia davvero quella giusta o se invece non possano esserci spiegazioni alternativa, tutto questo può tutelarci maggiormente dagli errori.

Alcune donne in carriera descrivono la famiglia, gli affetti, la cura dei figli come elementi ambivalenti, che danno forza ma la sottraggono anche. Lei non è sposata e non ha figli. Ciò le ha permesso di catalizzare con maggior intensità le energie sul lavoro?

Per ciascuno di noi è sempre una sfida riuscire a conciliare gli impegni del lavoro con quelli familiari, che possono essere anche, ad esempio, la cura delle persone anziane che ti sono vicine. Per me sono stati fattori di arricchimento umano le esperienze di educazione alla legalità, gli incontri nelle scuole o il tempo dedicato, quando ero giovane pm, a collaborare con centri per il recupero delle persone con problemi di tossicodipendenza o per aiutare le famiglie in difficoltà. Il tempo dedicato agli altri è prezioso come quello impegnato nel lavoro. Con mia sorella Alessandra, oncologa e docente all’Università Cattolica del Policlinico Gemelli, capita a fine giornata di condividere il racconto di ciò che siamo riuscite a fare e anche il carico emotivo delle vicende umane con cui entriamo in contatto. Fare un bilancio, nella convinzione di aver cercato di fare il meglio che si poteva, serve anche a ritrovare dentro di sé nuove energie per l’indomani.

Suo padre Pietro era magistrato. Quanto ha inciso il suo esempio nelle sue scelte di vita? E ha avuto invece “modelli” al femminile?

Una volta che ho deciso di studiare giurisprudenza e di provare a fare la carriera in magistratura, l’esempio di mio padre è stato fondamentale. Era un uomo veramente integro e indipendente, davvero imparziale e “giusto”. Tratti riconosciuti da tutti gli avvocati che ebbero a che fare con lui in una stagione giudiziaria difficile come quella dei processi di terrorismo, che lui ha presieduto a Firenze per circa vent’anni. Mi ha trasmesso la serenità, frutto di una saggezza accompagnata dal distacco. Non faceva entrare la componente emotiva nel processo decisionale del giudice, ma non rinunciava all’empatia umana. Muoversi nel solco delle norme e giudicare con imparzialità una vicenda non significa assenza di empatia per le persone che si hanno davanti. Ci deve accompagnare la consapevolezza che qualunque nostra scelta inciderà sulle loro vite, una grande responsabilità che dobbiamo assumerci giorno per giorno, con umiltà. In generale, non credo nei “modelli”. Ma da ragazza ho avuto insegnanti straordinarie, come la maestra elementare Bracciali, alla quale ho continuato a scrivere fino alla laurea, la maestra Innocenti, che era una profuga giuliana con una figlia, o al ginnasio la professoressa Gianazza. Donne toste, direbbero i ragazzi d’oggi, che hanno aperto una via.

Quali sono le sfide principali che si è trovata davanti, dal giorno del suo insediamento come primo presidente della Cassazione? E quali sono gli obiettivi che la Suprema Corte punta a raggiungere nei prossimi anni?

È un impegno complesso, alleggerito dal fatto di poter contare sulla collaborazione di colleghe e colleghi in un percorso corale, che non può essere la gestione di una “donna sola al comando”. L’impegno maggiore è quello di gestire in maniera efficace le recenti riforme, soprattutto in ambito civile, dove è chiesto al magistrato civile un mutamento di mentalità e la riorganizzazione del servizio, dopo l’abolizione della sesta sezione civile, che fungeva da filtro. Abbiamo appena completato il percorso di riorganizzazione, in linea con gli obiettivi fissati dal Pnrr. Ma a prescindere da quegli obiettivi, ci deve muovere la consapevolezza del fatto che tre anni per definire una causa civile in Cassazione sono troppi, sia per la vita delle persone che per l’economia di un Paese. Il settore penale è già in linea con gli obiettivi del Pnrr, perché si definiscono i ricorsi al massimo entro 4-6 mesi dall’iscrizione. La Cassazione italiana è un po’ un unicum nel panorama europeo, perché la nostra Costituzione prevede in ogni caso la ricorribilità al terzo grado di giudizio. Abbiamo circa 52mila ricorsi in un anno, di cui 35mila al civile. Ciò richiede un grande sforzo da parte nostra, perché se forniamo linee interpretative coerenti potremo meglio orientare la domanda di giustizia in futuro. E invece penso che una parte di questo carico derivi dal fatto che talvolta forniamo risposte contraddittorie sulle medesime questioni. E questa non è nomofilachia, ossia l’uniforme applicazione delle leggi su tutto il territorio nazionale.

Lei ha una posizione netta a proposito dei cosiddetti "processi mediatici". Perché questo Paese non ha saputo fare tesoro di vicende amare, dal caso Tortora in poi?

Ritengo che molto sia dovuto al fatto che, nel corso del tempo, si è alterato l’assetto del processo penale, dilatando a dismisura la fase preliminare delle indagini, che in realtà è solo una fase preparatoria, in cui c’è un’ipotesi di accusa del pubblico ministero che dovrà essere poi verificata nel contradditorio fra le parti. Invece, più si dilata la parte delle indagini, più si ingenera questo convincimento nell’opinione pubblica e più si allontana la fase naturale della verifica nel dibattimento, più si finisce per alterare tanto la dialettica processuale che il modo in cui l’informazione giudiziaria racconta quella vicenda. Penso che con le recenti riforme giudiziarie e con la direttiva sulla presunzione di innocenza, stia cambiando in maniera significativa la sensibilità dei giornalisti sul punto. Io e il procuratore generale della Cassazione stiamo collaborando con l’Ordine dei giornalisti. Dobbiamo essere consapevoli che la libertà dell’informazione è il fondamento di uno Stato democratico. Occorre una nuova professionalità, tanto dei giornalisti che dei protagonisti della giurisdizione, sapendo che talvolta una informazione approssimativa e disinvolta rischia di segnare inevitabilmente la vita delle persone. E nuoce anche al processo, perché determina delle situazione di “pre-comprensione” che poi possono minarne la celebrazione fisiologica e corretta. Il processo mediatico espone la persona come se fosse un fenomeno da baraccone. E invece penso che la pietas sia il sentimento che ci deve accompagnare sempre, anche nelle vicende apparentemente più inspiegabili ed effferate: ogni essere umano merita rispetto e ciò passa anche attraverso la non spettacolarizzazione di ciò di cui è accusato.

Fra gli strascichi del cosiddetto caso Palamara, va annoverata una perdita di credibilità della magistratura agli occhi dell’opinione pubblica. Ritiene che quella china si possa risalire e in quale modo?

Penso che si possa risalire, e che si stia già risalendo, in un solo modo: il corretto adempimento dei propri doveri professionali, nelle aule di giustizia e altrove. Dell’habitus mentale del magistrato deve far parte un concetto: la prima forma di credibilità è quella che lui testimonia nell’aula di giustizia. È attraverso l’espletamento corretto e umile del servizio che rendiamo che si può riannodare quel filo fra magistratura e collettività. Inoltre, è indispensabile che chi è presente negli organi istituzionali, per esempio essendo eletto al Csm, porti un’etica delle istituzioni sempre con sé nello svolgimento del mandato.

Cosa pensa del dibattito sulle definizioni “al femminile”: il ministro o la ministra, il magistrato o la magistrata?

Non è un fenomeno pittoresco, ma - come ci insegna l’Accademia della Crusca – la traduzione nel linguaggio di un mutamento sociale. A qualcuno potrà sembrare cacofonico, all’inizio, ma sottende il riconoscimento del fatto che ogni corpo professionale è fatto di uomini e donne. Quando ero presidente aggiunto della Cassazione, ricevetti il quesito di un presidente di sezione che rappresentava la richiesta di una collega, che voleva sottoscrivere una sentenza come “consigliera estensora”. Il presidente era preoccupato: “Ma come si fa?” Io risposi: se è corretto in italiano, perché no? Da quella vicenda, ho tratto forza anch’io per firmarmi “la prima presidente”. Cosa che fino a quel momento non avevo fatto. È l’acquisizione di una consapevolezza: non bisogna avere timore di non essere accettate perché siamo donne. L’accettazione implica anche il mutamento del linguaggio.

Chiudiamo con una suggestione. Nel 2019 Marta Cartabia presiede la Corte costituzionale, seguita nel 2022 da Silvana Sciarra. Oggi a Palazzo Chigi siede la prima presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Pensa che i tempi ormai siano maturi per l’elezione di una donna al Quirinale?

Quelli da lei citati sono esempi di una società in evoluzione, che riconosce l’apporto fondamentale delle donne al funzionamento delle istituzioni. Io mi auguro solo, se un domani una donna verrà eletta al Quirinale, che lo sia non perché donna, ma per i suoi meriti e per le sue indiscusse qualità, professionali e morali, al pari di un uomo.

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