sabato 11 ottobre 2014
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Dell’ascesa di Matteo Renzi e del nuovo ceto politico che gli si è costruito attorno si è sinora ragionato in termini di radicale novità – anzitutto, ma non solo, generazionale – o di continuità con un recente passato contrapposto alla parte politica di cui è espressione: così l’immagine del 'rottamatore' che sblocca un Paese bloccato accredita la prima ricostruzione, mentre i denigratori del presidente del Consiglio tendono a evidenziarne alcuni tratti che, soprattutto nel linguaggio e nell’uso spregiudicato dei mezzi di comunicazione, lo avvicinerebbero a Silvio Berlusconi. Non sono mancati, certo, altri tentativi di individuare qualche 'pedigree' politico per il renzismo: da quello di chi ha richiamato il filone rutelliano-veltroniano (e, in ultima istanza, prodiano) del centrosinistra degli ultimi due decenni a chi (Galli della Loggia) ha sottolineato la novità del cattolicesimo «decomplessato» di Renzi, sottolineandone i noti legami con lo scautismo, per finire con le opinioni che hanno evidenziato la rottura del leader Pd con le due grandi tradizioni del centrosinistra italiano, quella post-democristiana e quella post-comunista, alle quali il renzismo avrebbe posto la parola "fine".  Al di là degli elementi di verità che ciascuna di queste ricostruzioni, in misura diversa, contiene, ci si può forse chiedere se non sia più utile un tentativo di interpretazione della nuova stagione politica alla luce di alcune tendenze assai risalenti della storia politica italiana. La quale, dal momento in cui, a metà del XIX secolo, ha importato gli ordinamenti rappresentativi di matrice britannica attraverso la mediazione franco-belga incorporata nello Statuto albertino, si è caratterizzata per la prevalenza di un modo di interpretare l’azione politica che è antitetico a quello – tendenzialmente bipartitico – che ha reso celebre (e celebrato) il parlamentarismo britannico. La storia italiana, invece, è stata caratterizzata, certo, dalla presenza di 'partiti' (intesi dapprima come orientamenti ideali e come raggruppamenti di notabili e solo dopo come organizzazioni di massa) con orientamenti diversi, ma non si è sviluppata attraverso una chiara alternanza al potere fra i partiti stessi, sul modello reso celebre ai tempi di Gladstone e Disraeli e che da noi parve delinearsi in una fugace stagione con la «rivoluzione parlamentare» del 18 marzo 1876, quando Agostino Depretis, leader della Sinistra storica, successe a Marco Minghetti, leader della Destra come presidente del Consiglio.  Ma questo caso di alternanza non si verificò a seguito di elezioni: esso seguì piuttosto a una sconfitta del governo Minghetti alla Camera e le elezioni furono poi vinte da Depretis alcuni mesi dopo, grazie all’uso dei prefetti a opera del suo ministro dell’Interno, Giovanni Nicotera. Mai, dal 1848 al 2001, un governo in carica fu battuto alle elezioni e sostituito dall’opposizione parlamentare secondo l’archetipo britannico e solo le prime elezioni del XXI secolo hanno visto apparire l’alternanza Westminster Style in Italia. L’accesso al potere è invece sempre avvenuto grazie a voti parlamentari e a mediazioni prima regie e poi presidenziali. Ma soprattutto la caratteristica strutturante del sistema politico italiano è stata la costruzione di alleanze al centro, tagliando le estreme: così fece Cavour nel 1852, grazie al 'Connubio' con la sinistra moderata di Rattazzi; poi Depretis, nel 1882, con quel che restava della destra di Minghetti; indi – perfezionando la tecnica – Giolitti, nel quindicennio che porta il suo nome. E non è mancato chi ha visto persino nel fascismo quei tratti 'trasformistici' che avevano caratterizzato la storia precedente e che riapparvero in tutto il loro splendore nel cinquantennio democristiano, sia pure in modi diversi nelle fasi del centrismo degasperiano, del centro-sinistra fanfaniano e moroteo, della solidarietà nazionale e dello stesso pentapartito. Questa tradizione nazionale, è vero, si è interrotta fra il 1996 e il 2011, ma è poi prepotentemente ritornata in auge, con i governi Monti e Letta, in nome dell’emergenza e della governabilità, grazie alla maieutica del Quirinale retto da Giorgio Napolitano. E Matteo Renzi, con il suo «mai più le larghe intese» e con l’invocazione di un governo che sia noto «la sera delle elezioni» ha inteso più volte rimarcare una distanza fra il suo esecutivo e i governi degli anni 2011-14, al punto da impostare la riforma elettorale proprio in questa prospettiva. Ma i primi sette mesi del governo Renzi lasciano intravedere, assieme a questi elementi, anche una continuità con la tradizione trasformistica e centrista nazionale: il taglio delle estreme (si veda la riforma del Senato), il ricorso a coalizioni al centro, la ricerca di un discorso politico de-ideologizzato su cui possono convergere e 'trasformarsi' tradizioni politiche diverse, ritenute un residuo del passato e in tal modo svuotate.  È sicuramente troppo presto per trarre conclusioni, anche perché il renzismo deve ancora dimostrare di essere un’epoca e non solo un episodio. Ma alcuni passaggi di questi mesi inducono a guardare con attenzione alla storia patria: il tessitore dell’unità d’Italia (il Conte di Cavour), l’«irto spettral vinattier di Stradella» (Agostino Depretis), il «ministro della buonavita» (Giovanni Giolitti) e tutta la storia democristiana aleggiano alle spalle del più giovane e innovatore premier della storia repubblicana.
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