venerdì 20 ottobre 2017
Domenica si vota in Lombardia e Veneto. Ma negli anni il contesto economico e sociale è profondamente cambiato rispetto ai tempi in cui si parlava di "secessione" o "Padania"
(Fotogramma)

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Tutto è cambiato, ma nessuno lo dice. È cambiato il Nord Italia, sempre più diviso tra chi guarda all’Europa da posizioni d’eccellenza e chi si rintana nelle enclave sconvolte dalla crisi della globalizzazione. Sono cambiati gli attori protagonisti e le comparse, in un gioco di specchi che ha messo in luce le diverse velocità di territori in cerca di nuove vocazioni economiche, industriali e sociali. Sono cambiati infine gli stessi interpreti politici e le loro parole d’ordine, in un calando imbarazzante per chi parlava di «secessione» prima, di «Padania» poi e ora sembra accontentarsi di una semplice «autonomia». Il risultato è che il doppio referendum convocato da Lombardia e Veneto per domenica fotografa più il passato che il presente, manifestando concretamente la crisi forse definitiva della 'questione settentrionale'.

REFERENDUM AUTONOMIA: LE COSE DA SAPERE

Tra il 26 giugno 2006, data della consultazione fallita sulla cosiddetta devolution e la prossima tornata referendaria voluta da Roberto Maroni e Luca Zaia, sembrano passati molto più di 11 anni. Rispetto ad allora, il Lombardo-Veneto non è mai diventata un’entità unica, come auspicò Umberto Bossi una volta preso atto che le due Regioni erano le uniche ad aver promosso con più del 50% di sì il passaggio di poteri dal centro alla periferia. Ciò che è rimasto in comune, a livello di rivendicazioni, è la richiesta di poter contare su maggiori risorse economiche per i propri cittadini, sapendo che le risorse versate a Roma sono molto più alte delle entrate. «Abbiamo un residuo fiscale di 19 miliardi, soldi che vanno allo Stato e che non ci ritornano. Propongo di trattenere in Veneto il 90% delle tasse» ha dichiarato Zaia. «Il referendum consultivo non ha un effetto immediato ma un grande peso sul piano politico» ha spiegato Maroni, che punta a tenersi il 50% del residuo fiscale, che in Lombardia ammonta per ogni cittadino a oltre 5.500 euro.

Tutto questo val bene due referendum? Per rispondere, occorre capire come è mutato, nelle regioni settentrionali, lo scenario di riferimento. «Siamo stati sottoposti a cambiamenti repentini, ma c’è chi come le imprese ha corso con i ritmi della quarta rivoluzione industriale, che ha imposto accelerazioni incredibili ad esempio nel terziario avanzato; chi si è mosso, come la maggior parte dei lavoratori, con il freno a mano tirato, provando a capire in quale direzione stavamo andando; e poi chi, come il mondo politico, ha mostrato riflessi sempre più lenti nel tentare di dare una rappresentanza alle domande dei cittadini» osserva Daniele Marini, docente di Sociologia dei processi economici all’Università di Padova. Una cosa è certa: le istanze della pubblica amministrazione locale non incrociano più le domande della base sociale di tante comunità sparse sui territori, come accadeva all’inizio degli anni Novanta. In alcuni distretti aziende, famiglie e sindacati sono più avanti, in molti altri sono irrimediabilmente rimasti indietro, perché colpiti dall’avvento della globalizzazione.

«Già prima della Grande Crisi, c’era stata una convergenza obbligata tra imprese di dimensioni diverse e rispettivi territori di riferimento» riflette Giuseppe Berta. Per lo storico dell’industria, le distinzioni del passato non valgono più. «Quando chiedo ai miei studenti qual è l’impresa più grande di Torino, sa cosa mi rispondono? Lavazza. Hanno ragione: è un’azienda radicata nel territorio, fattura due miliardi, dà lavoro a migliaia di persone. Il modello non è più Fca, ormai apolide. Sono le imprese intermedie, come Brembo in Lombardia o Ima in Emilia Romagna».

Dal punto di vista dello sviluppo locale, la recessione ha dunque avuto un effetto di omogeneizzazione, spingendo definitivamente la grande industria fuori dai confini nazionali. «Lo stesso è avvenuto per le metropoli: o si sono definitivamente ridefinite e rilanciate, com’è accaduto con Milano, divenuta di fatto la capitale europea del Nord Italia, o si sono perse, come sta succedendo a Torino». Se a ciò si aggiunge la parabola dei 'piccoli', intesi sia come piccoli imprenditori che come piccoli Comuni, sempre più schiacciati dalla competizione e sempre più alla ricerca di protezione sociale, il quadro di insieme appare capovolto.

Che il Nord sia un concetto plurale, che si debba cioè parlare di più Nord e di differenti 'questioni settentrionali', è un dato assodato da tempo, eppure «nessuno ha saputo imporre una visione unitaria in questi anni, pensando a politiche differenziate per le diverse zone geografiche, all’insegna di federalismo e sussidiarietà» continua Marini. Troppo forte la voglia di lucrare facili dividendi politici, speculando su calcoli di bassa lega, dall’immigrazione alle tasse. Il territorio da orizzonte di riferimento per le proprie rivendicazioni è diventato, per un partito come il Carroccio, semplicemente un trampolino da utilizzare per lanciarsi in battaglie nazionali. I problemi di prima, però, sono rimasti e riguardano proprio le condizioni di vita dei centri dimenticati del Nord. Da Lamon a Sappada, in 12 anni è cresciuta enormemente la zona grigia della 'secessione' lenta, che vede oltre 30 località venete desiderose di trasferire armi e bagagli in Friuli Venezia Giulia e Trentino. «La vicinanza delle due Regioni a Statuto speciale sta schiacciando questi paesi, che chiedono lo stesso trattamento dei Comuni di confine. Così la politica regionale parla di autonomia e finisce in realtà per inseguire i privilegi dei vicini di casa» afferma Marini.

Una storia diversa, in questo senso, arriva invece dall’Emilia Romagna che ha approvato una risoluzione con cui dà mandato al presidente Stefano Bonaccini di negoziare col governo una maggiore autonomia. Nessuna consultazione, semplicemente l’attivazione di quanto già previsto dall’articolo 116 della Costituzione (evocato anche nel referendum lombardo) per ottenere ulteriori 'forme e condizioni particolari di autonomia'. Pragmatismo emiliano contro ritorno alle origini lombardo-veneto sono due facce della stessa medaglia che, paradossalmente, «confermano come la questione settentrionale sia ormai depotenziata rispetto al passato» dice Berta. La sfida semmai è diventata quella di ridisegnare il ruolo di uno Stato che non riesce più a rispondere ai territori, che si tratti di 'regioni rosse' o della Pianura Padana. La risposta non pare essere né il nostalgico centralismo di una parte della sinistra, né il lepenismo alla Salvini. La sera del 22 ottobre si capirà se i cittadini di Lombardia e Veneto avranno accettato la sfida del ritorno, sia pure soft, alle origini proposta dalla Lega di governo o se l’avranno considerata sorpassata dagli eventi e, come tale, destinata a essere ininfluente sul loro futuro.

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