mercoledì 18 gennaio 2012
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​Non occorre meritarsela, perché, allora, forse, spetterebbe a pochi. E a Mohammed – se è stato davvero lui – meno che a tutti, visto il crimine di cui si è macchiato: un po’ di soldi per tirare avanti in cambio della vita di un uomo e della figlioletta che aveva in braccio. Ma la pietà non guarda in faccia, e nel cuore di nessuno, non ha con sé nessuna bilancia per misurare il peso delle colpe. La pietà tocca a ogni uomo in quanto uomo, è anzi il suo corredo naturale, quasi l’ultimo sigillo, infranto il quale l’umanità va a disperdersi per strade che portano all’abisso.Morire braccato, con un cappio al collo, e intorno buste di veleno per topi – ucciso dal rimorso o dalla vendetta di altri, anche questo è ancora tutto da accertare – fa pensare, certo, alle colpe, e a quella massima di cui Mohammed è stato infine accusato come triste epilogo di una già triste "carriera". Ma proprio il filo dell’estremo con il quale, fin dall’inizio, è stata tessuta la trama dell’orrendo delitto di Torpignattara, fa emergere il rischio di un altro genere di colpa del quale il giovane marocchino sarebbe a sua volta vittima: l’indifferenza, o peggio il sollievo – come pure da qualche commento s’è udito – per una morte che, in qualche modo, vien fatta rientrare nel conto, già assai alto, di questa tragedia: quasi un epilogo, se non scontato, almeno compatibile con l’efferatezza dell’intera vicenda. Sarebbe ingeneroso accollare anche alla Roma violenta di questi ultimi, drammatici tempi reazioni scomposte e sconsiderate; e la stessa comunità cinese oltre che la famiglia della piccola Joy e del padre, Zhou Zen, ha mostrato di aver a cuore la verità, non la vendetta. Ma Roma e la comunità cinese non sono, tuttavia, i referenti esclusivi di una (brutta) storia che si è posta non solo come fatto di cronaca, ma – opponendo la protervia più sfrenata perfino all’innocenza di una bambina – come emblema dell’ennesimo atto di lotta tra il male e il bene. La morte, anch’essa violenta, di Mohammed ha in un certo senso separato in maniera ancora più netta e inconciliabile i due campi, fin quasi a marcarne e delimitarne ancora una volta i confini. Le tragedie chiamano sempre altre tragedie, secondo una trama che, forse, Mohammed, nella sua vita difficile, aveva già avuto modo di sperimentare. Ma un altro equivoco va forse messo da parte, proprio per il rispetto che anche a Mohammed si deve: la pietà che oggi gli tocca, ha poco a che fare perfino con la sua vita di stenti, la disperata ricerca di una terra sulla quale poggiare non solo i pedi ma anche le sue speranze di giovane come tanti altri; non c’entra neppure con gli odi e i razzismi che ha potuto incontrare sulla propria strada di clandestino o di precario regolarizzato. La pietà che gli si deve non ha bisogno di nessuna «pezza d’appoggio», che sciuperebbe tutto in inconcludente pietismo, moneta falsa della vera misericordia. La sua vita difficile gli ha certo spianato la strada verso quel vicolo cieco di un casale di campagna, lontano da casa, diroccato come e forse più delle sue baracche d’infanzia; e con quel beffardo cartello alla porta: «basta con i giochi di guerra» perché a nient’altro serviva quel rudere abbandonato se non ad allenare la mira con «pallini» di plastica bianca, scagliati a raffica contro il muro. Mohammed era appena un piccolo capitolo di una storia del disagio che finisce sempre per sovrastare ognuno dei suoi protagonisti. Ma qui si entra nel campo delle politiche sociali. La pietà è un’altra cosa, e va ben distinta soprattutto in momenti e in fatti come questi. Non è roba da decreti, né è possibile praticarla a dosi, e tantomeno selezionarla a seconda dei meriti o delle colpe. È il primo dei diritti naturali che scaturisce dall’amore, un comandamento per i cristiani, ma anche il segno certo di un’umanità che non va lasciata allo sbando. Mohammed Nasiri, 30 anni difficili, lasciati infine in un casale diroccato di Torpignattara, periferia di Roma: non una storia come tante, nella città violenta di questi tempi.
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