mercoledì 22 marzo 2017
La serietà di una classe politica si misura anche dalla capacità di dare risposte, tempestive e puntuali
Augusto Minzolini applaudito nell'aula del Senato dopo il voto contro la sua decadenza, il 16 marzo (Ansa / fermo immagine da Alanews)

Augusto Minzolini applaudito nell'aula del Senato dopo il voto contro la sua decadenza, il 16 marzo (Ansa / fermo immagine da Alanews)

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La serietà di una classe politica si misura anche dalla capacità di dare risposte, tempestive e puntuali. Nei giorni scorsi è tornato prepotentemente in primo piano lo snodo politica-giustizia, a partire da una vicenda che ha lasciato nei cittadini un retrogusto amaro: la votazione parlamentare sulla decadenza di Augusto Minzolini, giornalista e senatore di Forza Italia e l’annesso strascico di voci su un presunto patto tra Pd e Fi comprendente anche il "salvataggio" del ministro Lotti e, forse, una revisione della legge Severino. In questa sede, però, non ci interessa tanto la vicenda in sé (pur non priva di legittimi interrogativi), quanto la motivazione addotta da quasi tutti 19 senatori del Pd che hanno votato contro la decadenza (alcuni nomi dei quali, vicini alla minoranza dem, rendono peraltro risibile la tesi del patto Renzi-Berlusconi): sull’ex direttore del Tg1 ci sarebbe stato effettivamente un fumus persecutionis, dovuto al fatto che fra i giudici che nel 2014 lo condannarono in appello a 2 anni e 6 mesi per peculato c’era anche Giannicola Sinisi, magistrato, ex esponente (e sottosegretario) del centrosinistra fino al 2008, poi tornato a indossare la toga.
Motivazione singolare (così dicendo accreditano la tesi, di per sé gravissima, che un giudice ex politico possa essere parziale nelle sue decisioni) che ricorda tanto il detto "quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito". Il problema, in altre parole, sarebbe il signor Sinisi e non la mancanza di una seria legge (cui gli stessi politici dovrebbero provvedere) sui conflitti d’interesse in genere e, in particolare, sulle compatibilità fra attività giudiziaria e impegno politico. Oggetto anche di una recente raccomandazione all’Italia del Greco, l’organo anticorruzione del Consiglio d’Europa.

Ai parlamentari è data ora la formidabile occasione di porre rimedio a questa lacuna in tempi celeri: proprio lunedì è ripreso alla Camera l’iter di una proposta di legge per regolare la materia. Una ripartenza dopo oltre tre anni, e già questo la dice lunga sulla tempestività di talune iniziative parlamentari, ibernate forse perché lesive di "interessi specifici". Sgombriamo subito il campo da un equivoco: non è un problema che riguarda solo i giudici, peraltro presenti oggi in Parlamento in numero inferiore ad altre categorie (avvocati, giornalisti, diplomatici, ecc.).
Non c’è dubbio, però, che la specificità dell’azione giurisdizionale renda urgente una disciplina. Può un giudice decidere sulla vita di una persona di cui, magari, è stato fino a poco tempo prima fiero avversario politico? Non a caso lo stesso Minzolini ha evocato, nell’aula del Senato, un altro caso eclatante: quello di Michele Emiliano, che da pm (in aspettativa) vuol fare il segretario del Pd. Né va dimenticato un altro aspetto, che assimila questo particolare status a quei veri privilegi auto-costruiti dalla politica e così invisi alla gente comune: pur in aspettativa, i giudici-politici mantengono infatti gli avanzamenti di carriera, generosamente concessi, che garantiranno loro uno stipendio o una pensione più ricchi. Nel caso del ddl in discussione, si tratta peraltro di una proposta blanda.
Non mancano tuttavia, fra gli stessi giudici, voci più drastiche: da Franco Roberti, procuratore nazionale antimafia, a Felice Casson hanno sostenuto che i loro colleghi "prestati" alla politica non dovrebbero tornare più nella magistratura, una volta finita la vita politica; a loro andrebbe riservato un altro ruolo nella pubblica amministrazione.

Nella patria dei troppi conflitti d’interesse in servizio permanente effettivo, cominciare a chiudere qualcuna delle tante "porte girevoli" che delimitano i settori della vita pubblica è in effetti misura auspicabile, su cui vale la pena di riflettere seriamente, valutando pro e contro. Ma si decida presto e con un provvedimento chiaro, non con "leggine" che prestino il fianco a ipotesi interpretative e con limiti più o meno aggirabili. Allo stesso modo Emiliano, soprattutto se vuol presentarsi come un nuovo leader, ha una chance: non si limiti a 'sfruttare' gli spazi oggi concessigli, ma lasci subito la magistratura e si faccia parte attiva, co-promotore della nuova legge su giudici e politica. Se la politica è un servizio ai concittadini, è anche vero che non è un obbligo per nessuno e abbracciarla senza garanzie e privilegi alle spalle non farebbe che dare maggior valore alla scelta compiuta da chi si candida e ottiene il necessario consenso e mandato popolare. Non meno sgradevole appare poi il riverbero di questa vicenda su una possibile revisione della legge Severino, che dal 2012 (governo Monti) regola ineleggibilità, incompatibilità e decadenza dei politici. Una legge – lo ricordiamo – voluta proprio per evitare che amministratori pubblici condannati restassero tranquillamente al loro posto e che sancisce un principio giusto: chi governa dev’essere ancora più trasparente di chi è governato. Certamente l’assemblea parlamentare resta sovrana, pur tuttavia stona lo spettacolo di un Senato che vota contro l’applicazione di una legge dello Stato. Se alcuni, specifici aspetti di quella legge vanno rivisti, lo si faccia pure qui con celerità. Volontà e interpretazioni 'estensive' sono da rispedire al mittente, per non tornare a prassi del passato. Ma non si butti via il bambino con l’acqua sporca.

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